26 ottobre 2010

LA TRAVE NELL’OCCHIO DELLA SINISTRA


Ho una mia semplice spiegazione (forse troppo semplice) del divorzio fra politica e cultura ben descritta da Arturo Calaminici nel suo intervento sul n. 34 di Arcipelago.
La cultura progressista italiana (o meglio, i suoi intellettuali) alla fine degli anni ’70 semplicemente non è stata in grado di dare una risposta soddisfacente a due grandi eventi sotto gli occhi di tutti: la trasformazione del “socialismo realizzato” in un dispotismo burocratico e inefficiente; lo scivolare della “sinistra critica” nella “sinistra eversiva” (e dell’emancipazione libertaria nel consumismo autodistruttivo – leggi: eroina).
Per quanto ci siano state prese di distanza, prese di coscienza, ecc., di fatto buona parte della cultura era immersa se non partecipe di questi fenomeni e non ha dimostrato di avere gli anticorpi necessari per liberarsene.
Non è un caso che i fenomeni sociali e politici e successivi (riflusso, “edonismo reganiano”, per non parlare di Lega e Berlusconi) siano antintellettuali. Degli intellettuali non ci si fida, e gli intellettuali ricambiano non capendo e non apprezzando ciò che avviene. E’ la fiducia nel futuro che non c’è più: ma questa è stata spezzata dalla cecità dimostrata di fronte ai fatti.
E di esempi del perdurare di questa cecità politica e culturale ce ne sono molti; cito alla rinfusa:
– l’accanimento contro il ceto medio “evasore” che ha portato alla politica della “minimum tax” poi confluita in forma poco più raffinata negli studi di settore: ma non lo vedevano quante partite Iva erano in realtà precari? E si fanno i provvedimenti contro i precari?
– tangentopoli. Prima da sinistra ci si è presentati come gli “unici onesti” (! – ma quando mai?), poi hanno sprecato l’unica occasione di rimettere a posto la vita pubblica nazionale, anzi si sono dati da fare attivamente per ripristinare il potere dei partiti – anche nelle forme più meschine – attraverso riforme tagliate su misura delle esigenze degli amministratori, ahimè non sempre limpidi;
– le università: tanti professori universitari sono lì per motivi politici, e soprattutto troppi professori universitari di sinistra sono disponibili a fare la “foglia di fico” progressista per qualche iniziativa un po’ azzardata. Quando si deve mandare avanti qualcosa di un po’ spregiudicato, il vecchio trucco sempre valido è: chiamare un professore di sinistra, dargli un incarico, il lavoro metterlo nel cassetto… e tutte le possibili polemiche si placheranno;
– la difesa dei fannulloni nel pubblico impiego. Questa poi è una vera follia: si fanno pagare tante tasse, ma poi si buttano via i soldi, e si offrono servizi pessimi ai più poveri. Ma il pubblico impiego è un bacino elettorale, certo… (per non parlare delle case popolari, dove non si vuole guardare il vero fabbisogno perché molto personale politico di sinistra lavora nelle cooperative, ci vive, e quindi spinge per l’edilizia convenzionata che è una maniera di guadagnarsi il pane).
Si potrebbe continuare a lungo, impietosamente. Ma questi sono dettagli, espressioni di un problema più grande, che è lo sguardo inadeguato sulla realtà italiana (e il curare solo il proprio orticello).
Sono circa trent’anni che la sinistra culturale continua a sbagliare. Se non è tracollata, se solo adesso inizia a mostrarsi in serie difficoltà, è solo per la forza organizzativa e il radicamento dell’ex Pci: iceberg in lento scongelamento, argine e causa del declino.
Già, perché “causa” del declino? Perché la struttura, il radicamento, la pervasività se certo hanno consolidato e reso stabile nel tempo la cultura di sinistra nella società italiana, dall’altro l’ha resa anche più conformista, più incapace di guardare le cose, più in difficoltà nel trovare soluzioni. La sinistra è stata mainstream per troppo tempo. I luoghi comuni sono di sinistra. Le banalità sono di sinistra, i comici sono di sinistra, le canzonette sono di sinistra. E questo confortarsi a vicenda nell’ossessiva ripetizione di luoghi comuni ha portato a non vedere più la realtà, da troppo tempo.
Non si vuole guardare la realtà, perché se ne ha paura. Perché è diversa da quella che ci si aspettava. Non c’è più ottimismo, perché l’immagine della giusta battaglia è stata uccisa dalla lotta armata; e il principio di piacere è stato ucciso dalla droga. Ed è da lì che bisogna ricominciare a ragionare. Perché senza battaglia e senza piacere non c’è liberazione.

Troppo semplice? Personalmente ritengo che fino a quando non sarà stata fatta una riflessione radicale su ciò che è avvenuto in Italia alla fine degli anni ’70, non se ne verrà fuori.

Giuseppe Vasta



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