12 luglio 2010

RICOMINCIAMO DALL’ABC: ADESSO BASTA CEMENTO


 

Quantomeno concediamoci una sosta, una pausa di riflessione utilizzando l’opportunità offerta dalla “mano invisibile” (con soddisfazione, si spera, pure dei teorici del mercato sempre e comunque) che per una volta si è mostrata. In questa fase, non sappiamo fino a che punto congiunturale, infatti la “mano” é comparsa a palmo aperto e dita spiegate indicando un segnale inequivocabile: alt! Nel momento in cui si discutono i PGT di centinaia di Comuni – non solo di Milano perquanto l’attenzione sia tutta attratta dal “buco nero” di una galassia tuttavia un po’ più ampia – appaiono inadeguati i termini di riferimento che dovrebbero guidare le posizioni e le scelte dei soggetti politici e istituzionali responsabili. La forza trainante della rendita e della finanziarizzazione del mattone sembra infatti avvitata su se stessa.

La bolla alimentata dagli interessi immobiliari e consentita, se non incoraggiata, da poteri pubblici deboli, se non conniventi, ha prodotto la classica “crisi di sovrapproduzione”. La selva di cartelli e inserzioni indicanti improbabili “vendesi” e “affittasi”, nonché la vista di cantieri semiabbandonati, indica una prospettiva deprimente anche per il valore degli immobili appartenenti a una grande maggioranza di famiglie (ora che si è inverata l’antica profezia degasperiana: “tutti proprietari, non proletari!”). Coloro che invece hanno maggiori probabilità di riparo, o addirittura occasione per trarre profitto – investendo a lunga scadenza – sono ancora una volta i poteri forti e – perché no?- gli appetiti della criminalità organizzata.

Il ruolo dei Comuni, un tempo titolari dello “jus aedificandi”, distinto e sovraordinato rispetto ai pur legittimi diritti proprietari, si è ridotto alla parte di passivi percettori di tangenti, in termini di oneri di urbanizzazione e balzelli accessori, utilizzate per ripianare le poste ordinarie di più o meno magri bilanci. La discrezione di costruire è di fatto passata al privato che addirittura, nel caso di grossi insediamenti quali centri commerciali, multisale e simili, può permettersi di indire un’informale gara di appalto alla quale i Sindaci, allettati dagli oneri, partecipano al ribasso in concorrenza tra di loro.

Certamente queste considerazioni hanno qulache validità se si prende in esame la dimensione metropolitana della città reale, che funziona come sistema con un mercato immobiliare omogeneo e in parallelo un unico mercato del lavoro: entrambi causa ed effetto della mobilità e in particolare del pendolarismo. Purtroppo i PGT hanno invece contorni rigidamente comunali mentre i loro effetti si sommano fino a comporre una miscela potenzialmente esplosiva che sfugge a ogni valutazione d’insieme. Del PTC Piano Territoriale di Coordinamento affidato alla Provincia, che nel frattempo ha perso un pezzo importante di territorio metropolitano, si sono addirittura smarrite le tracce!

Eppure sono ben evidenti i risultati di una ventennale deregulation urbanistica, gli effetti della rinuncia non diciamo al disegno bensì neppure allo schizzo di massima dello sviluppo della città: congestione, inquinamento, spreco di suolo, infrastrutturazione insufficiente, carenza di verde. In un’attività umana cosciente l’intenzione dovrebbe precedere l’azione; la stessa costruzione di un edificio è necessariamente anticipata da un progetto che preveda la distribuzione degli spazi e delle funzioni nonché la sostenibilità delle strutture. L’espansione della città più ampia è invece avvenuta in modo sostanzialmente casuale, con un’abnorme quantità di edificato “stravaccata” sul territorio (per usare un’efficace espressione di Giuseppe Boatti che deplora una “politica del fare” di impronta più meneghina che milanese).

Allora servirebbe proprio una pausa di riflessione, in cui l’attività edilizia sia concentrata sul recupero e la riqualificazione dell’esistente, e nella quale l’azione politico-amministrativa si reinterroghi da principio sui motivi e i moventi della pianificazione territoriale: dal consumo di suolo inteso come “bene comune” (perché non suscita altrettanto allarme e attenzione presso sinistra e ambientalisti quanto l’analoga questione dell’acqua?), alla valutazione realistica dei fabbisogni, alla rivalutazione del vuoto che non è il nulla bensì il polmone che permette all’organismo di respirare, al contrasto degli appetiti speculativi interessati solo a diritti volumetrici da commercializzare dentro un’economia virtuale che già ha mostrato esiti catastrofici. Tratte le necessarie conseguenze (prima tra tutte la forma istituzionale che devono assumere i pubblici poteri per reggere in modo pertinente e non subalterno questa sfida) sarebbe forse possibile prefigurare un nuovo paradigma che ponga “la quantità al servizio della qualità” e segni una traccia riconoscibile per uscire dalla crisi.

 

Valentino Ballabio

 

 

 


 



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