5 luglio 2010

IL CANTO DEGLI ULTIMI


 

Invisibilità. Ovvero: non visibilità. Su questo frangente noi milanesi siamo tradizionalmente dei portenti. La nebbia nella bassa padana è da sempre oggetto di scherno in tutta Italia e ci rende agli occhi del resto della penisola gente burbera, grigia e infelice. Ormai la nostra amata-odiata nebbia tuttavia si fa sempre meno vedere, sostituita da una ben più densa nuvola gassosa: lo smog. Ma non è di questo che voglio parlare. Bensì della nostra non visibilità. Milanesi, popolo indurito dall’industria e dalla moda (che avrebbe potuto e dovuto fare di più per la comunità), dal consumismo fine a se stesso e dalla corruzione, ma soprattutto: cieco. Ci hanno accecato. Con tutte le loro pajettes, luci, culi e balletti. Con i loro soldi.

E ora ci sembra di vivere in una dimensione monocromatica, nella quale non si può nemmeno più distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. Atei e apolidi in una Milano che non crede in se stessa, non più. E in chi ci abita. Ma chi abita Milano? Giovani? Anziani? Sì, forse, ma guardate meglio. Imprenditori? Banchieri? Politici? No, state guardando alle categorie, io parlo delle persone vere e proprie. Silenzio. Sicuri di non vedere nulla? Esatto. Nebbia. È come quando ci coglie inaspettati in autostrada. Corriamo, ma non possiamo che intuire solamente la direzione della nostra vettura. Fermarsi a questo punto sembra la soluzione migliore. Ma Milano, e i milanesi, non si fermano. Anzi, accelerano. Hanno un appuntamento inderogabile al quale non possono mancare e il gioco vale la candela. La macchina sobbalza. Abbiamo investito qualcosa. O qualcuno. Sarà stata una bestia. Non possiamo fermarci solo per uno stupido animale. Tiriamo avanti. E sull’asfalto alle nostre spalle resta un grosso conglomerato sporco di stracci.

Ha due gambe, due braccia, un naso e una lunga barba. Come chi guidava la macchina. Sta lì, disteso. Agnello sacrificale del progresso e della corsa all’oro con un rivolo di sangue che gli cola dall’angolo della bocca. Eppure ancora respira. Dolcemente, con accenti rochi e una grammatica celeste. Sì, è una persona. Non l’avevamo visto. Siamo sicuri? Era lui l’invisibile o noi i ciechi? La verità sta sempre in mezzo. Possibile che ci siamo dimenticati di chi è uomo come noi? Di chi vive, respira, gioisce, soffre come facciamo anche noi?

Vi regalo un’immagine, fatela vostra. Diluvia a Milano. Di quei diluvi che solo voi, miei concittadini conoscete. Che paralizzano la città, il traffico, che ci regalano, in tutto il loro frastuono, una pace e un silenzio ai quali non siamo abituati. Che ci costringono a parlare sotto ai portici con altre persone con le quali non sareste mai entrati in contatto in tutta la vostra vita, a sdrammatizzare sul tempo, in attesa che spiova. Un uomo, solo, in un angolo. Seduto sul cartone, al limite del muro d’acqua. Si raggomitola in se stesso proteggendo ciò che gli resta dalla tempesta. Ci parlerete? Non è necessario. Ma lo vedrete? Lo vedrete davvero? Quella miseria vi toccherà? Perchè a Milano quando piove c’è una gran luce, non è mai buio, come non è mai buio di notte. E anche quella fatichiamo a vederla. Allora rispondetevi: è lui a essere invisibile o voi a non vederlo? Non è un’accusa, ma una presa di coscienza sulla più basilare delle emozioni: la compassione. Questa parola con la quale ci battiamo il petto in chiesa ogni maledetta domenica.

Nel vostro cuore, dove rimangono gli ultimi? Perché questo sono- non invisibili, non senzatetto, ma più semplicemente sconfitti. Come in una gara che evidentemente qualcuno ha truccato. Cosa meritiamo noi più di loro per stare ora, nel nostro ufficio o in casa a leggere Arcipelago mentre fuori diluvia? E intanto lui protegge il suo cartone. Certo, direte io cosa ci posso fare? La vita mi ha premiato, la sorte. Eppure io mi dico di sinistra e non credo nella fortuna. Credo nell’uomo in quanto artefice del suo destino, in quanto macchina pensante, realizzatrice dei propri sogni. Credo nelle opportunità e in chi non ne ha avute, ma non in una situazione stantia e irrimediabile. Chi decide chi ha diritto a un’opportunità? Non credo in Dio, quindi il cerchio si restringe.

La soluzione è per me liberarsi da questa insulsa cecità e tornare a vedere chi ci sta intorno. Rallentare questa insensata corsa e soffermarsi su uno sguardo prolungato alle proprie spalle. Recitava una delle più popolari campagne elettorali dell’ormai Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: “Aiutare chi è rimasto indietro.” Ora, non so bene a chi si riferisse il Cav, ma per me “chi è rimasto indietro” sono coloro che non hanno più il fiato per correre o i mezzi. Allora fermiamoci. Prendiamoci anche un solo istante per voltarci da questo quadro impenitente di glorie e stucchi dorati, a guardare chi ci siamo lasciati alle spalle. Soccorriamo chi necessita e forse, portandoci tutti sullo stesso livello, saremo ancora di più, ancora più forti e correremo più veloci, mano nella mano con chi era ultimo. La fortuna, per chi ci crede, gira. Io preferisco pensare che siamo capaci di una tolleranza e una solidarietà tali da poterci sorreggere a vicenda affinché, sempre per chi ci crede, “gli ultimi saranno i primi” e fuori potrà tornare a splendere il sole, per tutti.

 

Giulio Rubinelli



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