17 maggio 2010

PROVINCE NELLA MORSA: VIVERE O MORIRE


L’intenzione strisciante di abolire le Province, affiorante da tempo e a tratti in un ampio schieramento politico – da Veltroni a Di Pietro a Casini per fare alcuni nomi, per quanto spesso con l’aria del borbonico “facimmo a’mmuina” – ha tuttavia trovato un’accelerazione con la polemica accesa da Gianfranco Fini in aperto contrasto con l’esplicita difesa da sempre sostenuta da Bossi, a suo tempo (prima dell’occupazione del Ministero degli Interni!) propenso semmai ad abolire le Prefetture.

Il centro destra in questo modo – a prescindere dagli esiti della querelle interna al PdL – occupa tutto lo spazio a cominciare dagli estremi. La tesi abolizionista viene incontro ad ampi settori dell’opinione pubblica, compresa buona parte degli astenuti alle ultime elezioni, disgustati dai “costi della politica”, nonché alle esigenze di risparmio imposte dalla crisi della finanza locale che strangola i Comuni e non solo. La tesi continuista è coerente invece con la concezione leghista di preservare e moltiplicare i centri di potere e sottopotere locale, legati al territorio e a vere o presunte “identità” indigene.

In mezzo sopravvivono, in subordine a tutti gli altri livelli istituzionali e in sensibile odore d’inutilità, organi politici, apparati ed enti collegati e partecipati di Province di cui non appare chiara la missione e definiti i compiti fondamentali. Perse infatti le principali pertinenze storiche (ospedali psichiatrici e personale non docente delle scuole medie superiori) si sono aggiunte competenze generiche e sovrapposte ad analoghe regionali (ambiente, agricoltura, trasporti) e statali (lavoro). Per riempire le caselle di giunte pletoriche si sono poi escogitate competenze “fai da te” tipo non solo l’inevitabile “assessorato alla pace” bensì anche “ai diritti degli animali” e via dicendo. Il processo di legittimo superamento dei controlli centralistici e burocratici, avviato con la legge 142 del 1990, è infatti degenerato nel suo opposto: una sorta di deregulation che ha esasperato il valore dell’autonomia locale volgendola, più che al federalismo, al feudalesimo.

A ciò si aggiunga che le competenze storiche residue si riducono e risultano facilmente sostituibili dagli interventi dei Comuni. Le strade provinciali infatti si accorciano man mano che gli abitati si espandono e si congiungono; la manutenzione delle scuole medie superiori potrebbe facilmente essere coperta dagli uffici comunali che già si occupano di asili, elementari e medie inferiori.

E il centro sinistra? Non è che dallo scontro tra titani del centro destra rischia di uscirne ancora una volta appiattito e frantumato? Proviamo allora a suggerire una via d’uscita: una terza via non intermedia, ma qualitativamente diversa dalle due precedenti. Si tratta di ragionare – per una volta non in termini sconsolati e autodistruttivi – sul Titolo V della vigente Costituzione. Il testo, come modificato nel 2001 infatti se nella parte immediatamente applicata (il rapporto Stato-regioni) ha creato non poca confusione e conflitti, nella parte non applicata (dalla regione in giù) offre la chiave per la soluzione del problema, riassumibile – in estrema sintesi – in due punti.

Primo punto: chiarire “chi deve fare che cosa”. Posto che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” (art. 114) occorre definire con chiarezza la ripartizone delle competenze e delle responsabilità secondo il principio di sussidiarietà verticale, evitando doppioni e sovrapposizioni, rimpalli e scaricabarile; partendo dal basso e risalendo mediante “cessioni di sovranità”, con un processo analogo a quello che ha portato a costituire l’Unione Europea e la moneta unica. In questo contesto all’ente intermedio (Città Metropolitana nell’area metropolitana, Provincia nelle restanti) vanno riservate tre precise aree di competenza: governo strategico del territorio, mobilità e infrastrutture, risorse ambientali. Al limite basta una Giunta di tre assessori! La Regione deve invece tornare alla funzione legislativa e di alta amministrazione. Tutte le altre attività vanno riservate ai Comuni, singoli o associati. Nella realtà milanese il Comune capoluogo è soppresso e suddiviso in singole municipalità.

Secondo punto: definire gli ambiti territoriali più adeguati a ospitare le funzioni di “vasta area” corrispondenti. Si tratta allora di recuperare i confini – necessariamente arbitrari, ma questo è il compito della politica o, se vogliamo, della geopolitica – di enti intermedi relativamente omogenei sotto il profilo territoriale (le sfere del mercato immobiliare e del mercato del lavoro offrono un’ottima approssimazione). Prendendo sul serio i principi di “adeguatezza e differenziazione” (art. 118) si vedrà allora che pressochè tutte le provincie scorporate nell’ultimo ventennio non hanno senso e vanno riaccorpate. Vedi le ultime: una non ha il capoluogo perché ne ha 3 (Trani-Barletta-Andria), l’altra non ha gli abitanti (Fermo), la terza non ha il territorio (i due capoluoghi distano 4 Km. quanto il viale Italia di Sesto S. Giovanni!).

Dunque meglio meno ma meglio: ridurne il numero e attribuire funzionalità ed efficacia. Snellire, selezionare, sussidiare: le tre S di una “semplicità” che certamente, come diceva Bertolt Brecht, “è difficile a farsi”. Ma quali sono le alternative proposte dai partiti, delle fondazioni, dagli stessi amministratori del variegato centro sinistra? Ben vengano alla luce di una discussione franca e aperta, purchè non si riducano al vano inseguimento della deriva “federalista” o alla difesa acritica di uno status quo indifendibile.

 

 

Valentino Ballabio

 

 


 



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