3 maggio 2010

RAGIONAMENTO SULLA BELLEZZA DI MILANO


E’ davvero sconfortante il panorama del territorio di Milano, senza alcun quadro di coerenza formale, senza una sia pur esangue idea di un piano di insieme, una città futura costellata di progetti edilizi tra i più banali che possiamo immaginare, gli stessi che popolano tutti quei nuovi paesi per i quali la modernizzazione passa dalla ricchezza nel denaro alla povertà della forma, l’immagine di una città dove – diversamente da molte altre in Europa – risulta possibile vendere per buoni gli scarti che gli architetti di mezzo mondo tengono nei cassetti.

E mentre a Genova, dopo anni nei quali l’assessorato all’urbanistica è stato curato da uno dei più noti urbanisti italiani, Bruno Gabrielli, ora Marta Vincenzi ha pensato di migliorare ancora con un laboratorio affidato a Renzo Piano; mentre a Torino ha dato i suoi frutti il piano regolatore di Augusto Cagnardi, cui Chiamparino ancora si rivolge per migliorare il post-olimpiade; e i sindaci di Roma – prima di Alemanno – sono stati accompagnati da qualche ragionamento di Giuseppe Campos Venuti, all’amministrazione comunale di Milano non passa neppure per la testa di considerare il proprio futuro una tela da tessere con competenza e arte.

Sicché fin da ora i virtuali visitatori dell’Expo stanno facendosi quattro risate, per la nostra pretesa di mostrare al mondo un volto degno di una metropoli del futuro e per la realtà vera – che si vede benissimo – di un’accozzaglia da retrobottega. Letizia Moratti e, prima di lei, Gabriele Albertini sono sindaci drammaticamente insensibili alla bellezza della città. Ma, d’altra parte, se non lo fossero, i milanesi non li avrebbero eletti a loro sindaco: perché da almeno ottocento anni i milanesi dimostrano in ogni circostanza una radicata indifferenza per tutto quanto riguarda l’estetica della loro città, l’architettura dei temi collettivi e le loro sequenze con le strade e le piazze tematizzate.

Ecco qua: la prima grida contro i bravi ricordata dal Manzoni quasi a simbolo dell’inefficienza spagnola era stata promulgata nel 1583 da Carlo d’Aragona, principe di Castelvetrano, della cui permanenza di governatore a Milano nulla sappiamo d’altro. Ma negli anni nei quali Carlo fu invece viceré di Sicilia –Castelvetrano sta tra Palermo e Agrigento – i palermitani posero mano a una delle più straordinarie iniziative di abbellimento di una città che sia possibile annoverare in Europa, la grande croce di strade che s’irradia dai Quattro Canti.

Sta il fatto che, nei secoli della dominazione spagnola, quando tutte le città dell’impero diedero avvio ad analoghi splendori – pensiamo soltanto alle plaza mayor della Spagna o alla sequenza di via Toledo a Napoli o alla Grande place di una Bruxelles, martoriata, quella città sì, dal duca d’Alba – a Milano l’unico taglio fu la strada diritta dalla piazza della Fontana al portale dei tribunali, l’attuale sede dei vigili urbani, veduta che l’amministrazione comunale di qualche decennio fa, nella tradizionale insensibilità estetica milanese, invece di ripristinare ricostruendo gli isolati distrutti durante la guerra, sostituì con un insignificante e informe piazzale che neanche in una slabbrata periferia.

Ma ecco, ancora. Quando, dopo la pace di Costanza nel 1083, verranno di moda i nuovi palazzi municipali, quello di Milano – che pure aveva guidato la rivolta contro Federico Barbarossa – sarà molto più modesto non solo di quello veneziano ma persino di quello di Piacenza, e la sua piazza, la corte del broletto, sarà così insignificante rispetto a quella di Siena che alla fine dell’Ottocento i milanesi stessi la squarteranno per sempre aprendo via Mazzini. Mentre Bonvesin de la Riva magnificava Milano elencando le ghiottonerie quotidiane dei suoi cittadini – forse per questo l’alimentazione sarà il tema dell’Expo – alla fine del Duecento i mercanti fiorentini, che hanno appena conquistato il governo della città, aprono nuove strade all’interno stesso dell’abitato, ampliano le mura, assumono come architetto Arnolfo di Cambio che costruisce Santa Maria del Fiore lasciando all’incrocio delle navate una grande rotonda libera, che di lì a cent’anni Brunelleschi coprirà con la sua memorabile cupola. Ecco una repubblica dove la cultura estetica non è emarginata, i cui segretari saranno Leonardo Bruni, Coluccio Salutati, Nicolò Machiavelli, e dove prenderà corpo in un clima favorevole l’affascinante avventura del rinascimento.

E a Milano? Dopo essersi decisi – trecentoventi anni dopo i pisani – a darsi una nuova cattedrale, i milanesi convocheranno sul suo cantiere celebri architetti transalpini, apriranno un vispo dibattito per poi affidarsi a un modesto architetto locale: questa immensa mole bianca rimase nel profilo della città, con le sue guglie all’antica e le sue goffe murature laterali – non per fortuna l’abside, che un architetto nordico ha costruito con le grandi vetrate delle cattedrali gotiche – a testimoniare piuttosto la ricchezza che la vocazione alla bellezza della città mentre già su Firenze aleggiava il sogno della cupola di Brunelleschi.

Molti rivendicano il nome di Filarete come esempio, a testimoniare il vigore del rinascimento milanese. Ma, ahimè, Filarete rimase un architetto di corte, e quando Francesco Sforza lo propose per dirigere la fabbrica del Duomo il consiglio dell’Opera gli preferì Guiniforte Solari, e se gli venne affidato l’ospedale maggiore fu perché il duca ne era il più cospicuo benefattore: sicché Filarete lamentò tutta la vita che in quell’occasione gli avessero dimezzato il salario, mentre proprio negli stessi anni Pio II ricompenserà generosamente Bernardo Rossellino che gli aveva ricostruito Pienza facendogli spendere tre volte tanto il preventivo ma lasciando di lui una traccia memorabile. E quando Vanvitelli venne chiamato per proporre un disegno per il rinnovo del palazzo reale, i milanesi lo trovarono troppo appariscente e preferirono affidarsi a un suo modesto assistente folignate, il Piermarini, la cui cauta mano piacque invece loro moltissimo.

Così di secolo in secolo vediamo questa immagine di Milano emergere pallida nel confronto con le altre città: la strada nuova di Genova non avrà qui nulla di simile, Palladio costruirà nel Veneto, Bernini e Borromini a Roma, Vanvitelli a Napoli, e un secolo fa sarà Lione ad adottare un architetto moderno, Garnier. Il fatto è che l’amministrazione civica a Milano verrà sempre affidata a personaggi di secondo piano – rispetto a quelli che andavano guadagnandosi il rispetto europeo con la loro energia nel campo economico e a quelli, come Beccarla, che lo meritavano nel campo del pensiero – i meno adatti a comprendere le ragioni dell’arte.

Resta tuttavia che in qualche momento particolare la città sembrò svegliarsi da questo torpore, quando per esempio il suo ruolo di capitale nell’impero napoleonico le consigliò di mostrarsene all’altezza e Francesco Melzi fece erigere l’arco della pace sulla strada del Sempione e preparò un nuovo piano regolatore. E poi anche quando, con l’unità d’Italia, la città volle rivendicare il proprio ruolo nella rinnovata nazione anche nel campo estetico realizzando in trent’anni l’insieme di piazza del duomo, della galleria e di piazza della Scala, via Dante con il castello e il parco che riallacciava la città all’arco di cent’anni prima, soprattutto Cesare Beruto disegnerà un piano regolatore tra i meglio tracciati d’Europa, che vivificava la città con una rete di boulevard, di passeggiate, di viali alberati che l’hanno fatta davvero inaspettatamente bella.

Ma in mille anni, queste sono state stagioni rare, non succederanno più. Lasciando perdere dunque quel programma di disegnare una nuova città degna della migliore tradizione europea, nella quale oggi non spererei gran che, viste le cose come si mettono, sarei contento se quelle splendide a strade alberate – che vediamo in questo disegno e ora coperte di automobili accatastate – tornassero a essere quei boulevard e quelle passeggiate come erano stati immaginati alla fine dell’Ottocento, secondo peraltro un programma già avviato qua e là, in viale Omero o in corso Lodi, ma da estendere all’intera città. E allo stesso modo il centro storico andrebbe chiuso alle automobili non solo per motivi ecologici o di razionalizzazione del traffico, sempre opinabili quanto più supportati da metodi “scientifici”, ma anche per farne tutto quanto un’isola pedonale, come per esempio a Strasburgo, togliendo subito tutti i marciapiedi e rifacendo l’arredo in una maniera finalmente garbata: perché la bellezza alla fin fine tocca tutti ed è assai meno discutibile della tecnica.

E ancora: cerchiamo su Google di Curitiba, una città del Brasile meridionale dove il mitico sindaco Jaime Lerner ha forse fatto tutto quanto è oggi possibile fare per convertire il centro storico ma anche per rendere belli i quartieri nuovi della sua città, le sue vituperate periferie, investendole tutte di un caloroso progetto che ha fatto di ogni spazio libero non tanto un generico verde ma il supporto di una qualche iniziativa che avrebbe accompagnato tutti i loro cittadini, dai bambini agli adulti ai vecchietti. Non sarà un progetto di grande respiro, ma è forse meglio sapere quale sia la città cui apparteniamo, e non pretendere che ci dia quanto non è quasi mai stata capace di dare.

Marco Romano




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