26 aprile 2010

SALONE. LA SAGRA DELLA PRIMAVERA


Si è conclusa. La caleidoscopica cavalcata etilica che con la scusa di improbabili elucubrazioni nevrotiche di super-star e super-starlette del design ex-italiano, ha consentito a flussi incontrollabili di predatori di partecipare alla festa della “primavera di bellezza”, si è conclusa. Per qualche secondo la fiesta ha catapultato Milano al centro della comunicazione multimediale planetaria. Ma di che cosa stiamo parlando quando parliamo di salone/fuori salone del mobile?di un suk post-moderno figlio della sagra di Santa Rosalia dove il “signor Progetto”è un invitato inutile, superfluo, ma dove l’inutilità dell’oggetto da produrre è direttamente proporzionale al suo successo.

Il fatturato, da sempre, lo fanno i ruvidi mobilieri della Brianza velenosa che imitano Thomas Chippendale a 999euro, arredamento completo, elettrodomestici e materassi compresi. La ciliegina cool non vende molto, e se vende si rivolge al mercato Uzbeko, o Kirghiso, e ad altri improbabili neo-ducati post-sovietici, perché il ricco recente e istantaneo vuole solo simboli, e il made in Italy come direbbe il noto rampollo Agnelli, tira moltissimo. La filiera virtuosa degli anni cinquanta e sessanta è solo un ricordo sbiadito da vecchia copia dell’Europeo, che negli anni si è trasformata, senza capire verso quale nuova identità, senza un territorio produttivo identificabile (viva, viva la globalizzazione, segno di progresso per tutti i popoli della terra), progettisti-imprenditori-venditori-mercato si sovrappongono, scambiandosi ruoli nella disperata ricerca di una reciproca via d’uscita. Estetica liquida, materiali areonautici, eco sostenibilità, fotosensibilità, anche il design cerca di diventare tendenza, di comprimere il più possibile il suo tempo d’uso affinché come la moda diventi di moda.

Ogni primavera bisognerà buttare il divano fucsia, la cucina in beola, il lettone di novemetriquadri rotante, e lo specchio con il simbolo del partito di riferimento. Milano, da brava scolaretta educata e civile si adegua al neo-lanzichenecco e celebra qualsiasi cosa si muova, purchè dia un segnale di vita: meglio il rumore al silenzio. Lo scenario è quello del cartoon della Pixar Wall-e, tra le rovine di una cultura che produceva modelli esportabili nel mondo, con un’etica e un’estetica del prodotto definite e chiare, si monta il tendone del circo (senza Direttore), in stile prova d’orchestra (senza Fellini), ma guai a esprimere un giudizio, quella facoltà è relegata alle faticose peregrinazioni filosofiche di Immanuel Kant.

Roba da dopoguerra. Stiamo solo cercando di non foderarci gli occhi con le fette di salame del provincialissimo happy hour che la genialità creativa a gettone ci costringe a sopportare ogni anno, almeno quelli della moda i bivacchi li fanno ma solo tra loro. Design, design, parola magica che evoca stagioni di caroselli e pubblicità e compassi d’oro e Triennali (vere), allora il salone non c’era perché tutti sapevano dove trovare quello che cercavano, e l’industria non aveva bisogno di “aiutini”per cercare di sbarcare il lunario. Il fuori salone sta al design come il grande fratello sta alla televisione: non ha successo perché è importante ma è importante solo perché ha successo, e noi siamo così snob (e anche un po’ str…) che ci piacciono le cose che incidono la realtà e l’evoluzione dell’abitare, e non i lustrini o le foglie di fico degli ultimi Mohicani di Meda-ville.

Probabilmente il progetto confuso e rumoroso del dentro e fuori salone degli ultimi anni passerà senza lasciare traccia, come acqua su un vecchio divano B&B Italia o di Franco Cassina, ma meno influenti si diventa è più rumore bisogna fare, e con la grancassa della confusione ci rimane poco tempo per pensare alla deriva creativa del design “made in world”, col marchio doc tricolore. Non è solo la crisi economica a schiacciare l’espressività delle griffe ma come diceva Boccioni “mancano le idee non i soldi in questo paese”, lo diceva nel1909, ma abbiamo festeggiato degnamente il centenario di quella sacrosanta verità. Manca la voglia di analizzare senza per questo essere additati come menagrami politicizzati (di sinistra?di destra?di centro?fate voi).

 

 

Nel coro all’unisono italiota, le voci dissonanti, il controcanto infastidisce, perché potrebbero costringere il Grande Stratega a cambiare partitura. Il “provocatorio seriale” e “o famo strano” di questo design allo sbando, contribuiscono al trionfo del pensiero unico, la strategia vincente per la definitiva affermazione della mediocrità nel più grande processo di semplificazione che la storia patria ricordi. Ma non preoccupatevi, tutto sotto controllo, anche il “fuori salone”è un modo come un altro per uniformarsi al codazzo sorridente e beone di chi nell’assenza di pensiero originale, prospera e dilaga.

 

 

Maurizio De Caro


 



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