26 aprile 2010

IL PIRATEGGIARE, SENZA TIMORE DI LICHTENSTEIN


Immagini coloratissime e di imponenti dimensioni ispirate a correnti artistiche e a opere celebri, particolari ingranditi a dismisura, tante citazioni colte, non immediatamente visibili, ma che un occhio esperto riesce facilmente a individuare: la copia per Lichtenstein è tanto importante quanto l’originale, ma non la copia dell’originale, bensì la copia della copia dell’originale. Lichtenstein si esprime copiando, prende a prestito senza timore le opere altrui e continua così la tradizione in un modo diverso: ‘Non temo di pirateggiare opere di altri – afferma in un’intervista – e credo che gli artisti l’abbiano sempre fatto’.

In considerazione della personale formazione artistica Lichtenstein è un raffinato conoscitore dell’arte che riproduce e compie una rivisitazione profonda di opere celebri di artisti del passato più o meno recente. Trasformare una copia in un originale non è di per sé una novità, molti artisti in effetti l’hanno fatto, ma l’originalità trasgressiva e innovativa della sintassi visiva dei dipinti e delle sculture di Lichtenstein è spingersi fino al massimo livello in quest’operazione, sfidando con ironia le convenzioni: citazioni e autocitazioni, commenti e reinterpretazioni di stilemi espressivi, rivisitazioni e variazioni sul tema, come nella musica jazz da lui tanto amata. Sperimentare e tradurre in qualcosa che l’artista sente che sarebbe stato suo e sarebbe stato interessante.

Realizzata in collaborazione con The Roy Lichtenstein Foundation (*), l’esposizione – che sarà visitabile presso la Triennale di Milano fino al 30 maggio – include oltre cento opere fra tele, disegni, collages e sculture provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private internazionali. Attraverso un itinerario tematico incontriamo tra le altre le opere legate all’espressionismo tedesco e al futurismo, le meditazioni sul surrealismo e sull’astrattismo, i dipinti con implicazioni cubiste e i poetici paesaggi cinesi; niente di stampato, ma tele di grande formato private della sacralità della tela. Nel suo studio Lichtenstein lavorava posizionando le tele su cavalletti ruotanti al fine di poterle capovolgere ed era capace di dipingere cinque o sei quadri contemporaneamente, perché dedicandosi a uno soltanto si sarebbe certamente annoiato. Sceglieva immagini, le disegnava, le proiettava su tela, dilatandole e deformandole, per poi dipingerle anche con strati sovrapposti, come nella tecnica tipografica e con un uso abbondante del retino, spesso lasciato agli assistenti, come in fondo accadeva nelle antiche botteghe per le parti secondarie dei grandi capolavori. La sua passione dichiarata è il disegno.

La sacralità della tela è annullata ed è lecito anche uscire dai suoi confini; anche la pennellata, emblema del pittore, perde ogni sacralità: è bella di per sé, disegnata, ingrandita, congelata fino a diventare scultura. Le sfumature scompaiono e il movimento è congelato, l’immagine ferma: come nel quadro ispirato al Cavaliere rosso di Carrà, ove del futurismo non rimane che l’involucro. Lo zoom dell’artista ingrandisce i particolari, li isola e li trasforma in qualcosa di quasi astratto, come nel caso della pallina da golf ispirata a un’opera di Mondrian. I punti di retino e le placche rendono l’idea del movimento dell’acqua e del cielo, creando le poetiche atmosfere dei paesaggi cinesi e le illusioni ottiche della serie delle cattedrali di Rouen care a Monet. I grossi contorni neri enfatizzano la forza plastica ed esaltano il colore.

Nel messaggio di questo significativo innovatore della pittura americana contemporanea è costante anche l’appello a non prendersi mai troppo sul serio e la propensione al paradosso: ‘Che cosa c’è da dipingere che non sia ridicolo?’ – si domanda; e alla domanda ‘Quando è finito un dipinto?’ non può che rispondere: ‘Quando sembra finito’.

 

(*) http://www.lichtensteinfoundation.org/

 

Rita P. Bramante



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