19 aprile 2010

Scrivono Vari 19042010


Scrive Paolo Lozza

Prima di tutto un po’ di sana polemica, non con Mario De Gaspari che stimo, ma con Penati. De Gaspari ci dice che la proposta di Penati “va presa sul serio”, salvo poi affermare che “sconta una certa improvvisazione” e, come una giustificazione non richiesta, aggiungere anche che è stata fatta “durante un incontro con lavoratori in lotta per la difesa del posto di lavoro”. Quasi a dire che, in quel contesto, si possano anche lanciare sparate a capocchia. Se è così, non condivido.

Per cui mi risulta difficile “prendere sul serio” una proposta manifestata improvvisamente, senza un minimo di articolazione, senza un minimo di supporto disciplinare, senza un minimo di dibattito pregresso, senza che ve ne fosse traccia, almeno così mi pare, nel programma elettorale (ebbene sì, almeno sul sito di Penati Presidente, c’era anche un programma…), una proposta buona magari a prendere un applauso dagli operai presenti ma poco utile ad altro. Aggiungo: una proposta espressa da un Presidente della Provincia di Milano che non ha saputo (o voluto?) sostenere l’approvazione di un Piano Territoriale Provinciale che avrebbe dato basi serie a una sana gestione del territorio; una proposta espressa da un Sindaco di Sesto San Giovanni che, a suo tempo, non mi pare abbia posto grandi ostacoli al progetto di trasformare l’area falk una delle più grandi speculazioni immobiliari.

Polemica terminata, veniamo alla proposta. E’ perfettamente vero che “favorire la valorizzazione delle aree produttive non può che accelerare la crisi delle aziende”, anche se non collegherei direttamente valorizzazione e crisi. Più spesso, almeno storicamente, si è trattato di collegamento diretto tra valorizzazione e semplice delocalizzazione. Il punto è: può un vincolo urbanistico di destinazione d’uso impedire il fenomeno? Io credo di no. E d’altra parte anche De Gaspari si chiede, nel suo intervento, se dieci anni di blocco edificatorio siano utili a scoraggiare speculazioni immobiliari che, aggiungo io, quasi sempre si possono permettere tempi di rientro dell’investimento ben più lunghi di un solo decennio.

Ho in mente l’esperienza fatta dai Comuni del rhodense che – fin dalla prima metà degli anni novanta, quando la Fiat iniziò la riduzione di personale che nell’arco di un quindicennio ha portato all’attuale sostanziale dismissione dell’ex Alfa Romeo – s’impegnarono a non consentire cambiamenti di destinazione d’uso dell’area e crearono perfino, con la Provincia e la Regione, un ente pubblico per la reindustrializzazione del sito (CRAA – Consorzio per la reindustrializzazione dell’area di Arese). I risultati sono stati a dir poco deludenti, tanto che oggi gli stessi Comuni accettano di buon grado di insediare ad Arese centri commerciali e residenza. In quel caso quindici anni di blocco edificatorio non sono bastati. (Certo, oggi i comuni del rhodense hanno un segno politico diverso, ma non è forse lecito pensare che, anche con giunte di centrosinistra, il risultato sarebbe analogo?)

Che fare allora?

Forse la strada per contenere le speculazioni sulle aree industriali passa per altri luoghi. Forse la disciplina urbanistica ci può aiutare, ma attraverso altri strumenti. Forse si può pensare che l’urbanistica possa introdurre regole che raddrizzino un poco le distorsioni del mercato immobiliare. Forse si può pensare che, a fronte della proposta di un programma integrato di intervento su un’area ex-industriale, il sindaco di turno non vada alla trattativa con il cappello in mano accontentandosi di elemosinare il rinnovamento palazzo comunale, piuttosto che il nuovo centro civico o il nuovo auditorium comunale, oppure (ho sentito anche questa) una piscina che diventerà di proprietà pubblica dopo trent’anni, giusto quando dovrà essere completamente rifatta.

Forse imponendo all’operatore oneri che intacchino ben più pesantemente i margini operativi dell’operazione immobiliare, si potrebbe pervenire a una dissuasione economica più efficace di un blocco edificatorio per sua natura temporaneo. Ma per fare questo – ha ragione De Gaspari – ci vuole una legge urbanistica regionale che, al contrario dalla legge 12/2005, non consenta la concertazione al ribasso. Forse, aggiungo io, ci vorrebbe una legge urbanistica che non consegni nelle sole mani del sindaco i poteri decisionali sul territorio; una legge urbanistica che, privilegiando la pianificazione di area vasta, veda i sindaci – oggi deboli di fronte alla grandissima forza economica della rendita immobiliare – essere rafforzati attraverso la condivisione delle scelte, e quindi degli oneri e degli onori, con gli enti sovraordinati.

Imporre oneri molto pesanti rendere significa economicamente meno vantaggiosa la speculazione sulle aree e forse spingerebbe gli operatori industriali a continuare a fare il loro mestiere, magari un po’ meglio, con vantaggio per il mondo del lavoro. Sommessamente aggiungerei che trarrebbe vantaggio la città tutta che eviterebbe di soffocare nel cemento inutile dei centri commerciali.

Ma questa, forse, è un’altra storia.



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