12 aprile 2010

POPOLO DELLA SINISTRA O DELLA FATICA DI SISIFO


Un’altra caduta. Dolorosa. Rovinosa. Più di altre. Speravamo che il vento cambiasse. Si diceva che stava cambiando. Ora il centro-destra è più ricompattato e noi più divisi. Dobbiamo riprendere il sasso pesante dal fondo, faticosamente. Ma più di prima, ora temiamo che arrivati in cima ci torni a rotolare in basso, in fondo. Diffidiamo di quelli che ci vogliono consolare, non vogliamo essere consolati. Se ci riusciamo, guardiamo ancora in faccia le cose. La sinistra, alla nostra sinistra, non esiste più: macerie, inerti, polverose. Attorno, è diventata enorme l’area dello sconforto, della sfiducia, della rassegnazione. Siamo meno e più soli. La nostra classe dirigente è incapace. Il Partito, conservatore, autoreferenziale. Qualcuno dice essere solo un Comitato elettorale. Io non credo.

Lo sbando di questo paese è tremendo. L’Italia precipita, e noi non ce la facciamo. Forse non abbiamo cuore, né testa, nemmeno muscoli per tentare l’impresa di alzare l’argine necessario. Idee e cuore. Per capire, per fare. Non bastano buon senso, alla giornata, pragmatismo spicciolo. A una grande idea, che ha plasmato il mondo, ed anche noi stessi purtroppo, occorre contrapporre altre diverse grandi idee. Al liberismo, mercatismo, mondializzazione dell’economia, pensiero unico, occorre contrapporre le nostre idee.

Europa. Tutti i paesi dell’Europa, nel dopoguerra, sono cresciuti, hanno assicurato sviluppo e civiltà con una precisa politica: tassazione forte e progressiva, politica dei redditi, welfare e più diritti, sicurezza libertà progresso emancipazione per tutti, a cerchi sempre più larghi. Mai, nella storia, il mondo (almeno quello occidentale) aveva goduto di uguali livelli di benessere e, ripeto, di civiltà. Mai. Si sono rotti gli argini, il fiume straripa, travolge le vecchie e ormai deboli difese. Apprestare nuovi argini? Non servirebbe. Occorre cambiare corso, approntare un nuovo letto. E’ cambiato il mondo. Dopo tre secoli, la pace di Westfalia non tiene più. La globalizzazione ha travolto gli stati nazionali. Il Leviatano non fa più paura. Le frontiere sono saltate, anche il mercato del lavoro e i conflitti sociali non maturano più in ambito domestico. L’economia italiana non è più italiana, e quella francese non è più francese, sono entrambe parte di un’economia globale e apolide. So di forzare il concetto!

Occorrono un nuovo patto, nuove idee, nuovi strumenti di regolazione del conflitto, non solo sociale e del lavoro, anche del conflitto tra generazioni, anche tra chi ha e spreca e chi non ha e muore, anche quello che nasce dal modo di appropriarsi della natura. Grandi idee occorrono, idealtipiche, regolative, che presidino e orientino il nostro quotidiano. La prima idea si chiama Europa. Lo stato nazionale fa fatica (anche se non fosse in mano agli sciagurati!). La dimensione, la scala dei problemi va oltre, eccede i limiti dello stato nazionale. Lo stato mondiale è ancora una chimera. L’Europa ha dimensione, massa critica, risorse, forza, cultura, sufficienti. Occorre da subito l’Europa per andare oltre l’esistente, rapidamente. Il Federalismo che dobbiamo costruire, non è questo meschino padano-secessionista, punitivo, egoista, che digrigna i denti verso i più deboli.

Il federalismo degli Stati Uniti d’Europa serve subito. Il nostro partito deve impegnarsi allo stremo per costruire un Partito Democratico d’Europa. Un partito unico, con le sue necessarie propaggini e articolazioni nazionali. Essere europeisti non nella chiacchiera, nella retorica che consuma un’idea invece che realizzarla. Essere totalmente, coerentemente, intimamente europeisti. Il nostro corpo non può avere solo qualche chiazza di epidermide europeista, ma, sottoposto ad anatomia, deve mostrare carne e sangue, cuore e cervello europeisti. Questa è la prima idea. Certo, non possiamo portarla subito all’incasso!

L’altra, anche questa non propriamente cash, è la revolte contro l’imperante economismo, ovvero egoismo predatorio più consumismo più feticismo delle merci. Tornare a Marx? Non proprio. Almeno non nella parte della metafisica della storia. Un ritorno sorvegliato al primo Marx, sì. La tremenda alienazione che ci avviluppa è quella di pensare e regolare i rapporti umani, tutti i rapporti, secondo il valore di scambio. Il valore d’uso deve tornare ad avere un suo spazio. La produzione deve essere indirizzata al soddisfacimento dei bisogni reali, degli uomini in carne e ossa. Il mercato? Certo, è uno strumento fondamentale. Ma è e deve restare uno strumento, libero possibilmente e regolato. Se i nostri occhi vedono la catastrofe, allora dobbiamo dirlo: abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo. Che valorizzi la cultura, che stimoli la realizzazione alta di sé, che promuova un’opera di affinamento della formazione per godere di beni che le sole merci non possono garantire.

Un solo passo ci separa dal delirio. E’ così, non ce ne avvediamo? In Italia dieci milioni di persone vanno avanti, con pena, assumendo giorno dopo giorno farmaci psichiatrici. Si risponde psichiatrizzando la società, elargendo farmaci a quelli che non ce la fanno, invece di “aggiustare” le relazioni tra gli umani, tra di noi. Altra idea. Volgiamo al positivo la globalizzazione (che sta seminando tanti disastri). Facciamo crescere l’idea kantiana della solidarietà di specie. E facciamo crescere l’idea anche della solidarietà interspecifica. Se non ci mettiamo ad affrontare i problemi con pazienza, a districare i nodi con dita di fanciullo, i problemi presto ci travolgeranno.

Il nostro partito è medicina o modo della sindrome anch’esso? Noi vogliamo un’altra cosa? O no? O abbiamo paura di essere e di dichiararci diversi? Ma è quello che la gente e il paese ci chiedono: di essere diversi. Di non aver paura né di esserlo né di mostrarlo. Naturalmente, senza stupide vanterie. “Stiamo sul territorio e prendiamo i voti”. No. Stiamo sul territorio, diamoci da fare, stiamo tra la gente, affrontiamo i problemi, difendendo beni pubblici e diritti delle persone, e i voti, che sono necessari, verranno. Amiamo le nostre città! Non le amiamo abbastanza. Milano, la amiamo abbastanza? La stanno mettendo a ferro e… cemento. Prevedono la costruzione nei prossimi anni di quaranta milioni di metri cubi. Perché? A vantaggio di chi? Per risolvere quali problemi? Nessuno che sappia rispondere a queste domande. Il problema, lo dicevamo, non è infatti soddisfare i bisogni, ma valorizzare il capitale e far crescere la rendita urbana. A Milano si è costruito moltissimo in questi ultimi dieci anni, consumando una grande opportunità, quella delle grandi aree dismesse. Ormai ne restano poche, circa l’ottanta per cento è andato.

Quali problemi abbiamo risolto? Ci sono decine di migliaia di appartamenti disabitati e decine di migliaia di persone che hanno un assoluto bisogno della casa, ma domanda e offerta non si incontrano, non possono incontrarsi. Sono case che non sono fatte per chi ne ha bisogno, ma per il mercato. Non per questo mercato specifico, ma per il mercato punto e basta, il mercato generico, globale. Il Partito democratico ha risposto con i pannicelli caldi. Una serie, quattordici, di emendamenti (sui quali si è aperta una trattativa con la maggioranza) che, quand’anche fossero tutti accolti, non ne cambierebbero la sostanza: questo è un piano che potrebbe andare bene anche a Dubai. Milano non c’è, i milanesi neppure. Ci vorrebbe cuore.

Si dice, sul PGT non trasciniamo nessuno. Che tristezza! Facciamo le cose per trascinare e prendere voti o facciamo le cose perché si devono fare, per difendere la città, di oggi e di domani. Vi immaginate un padre che dica, se il figlio non vuole andare a scuola e non ne capisce l’importanza: cosa vuoi fare? Ti piace il calcio? Allora lascia la scuola e tira calci al pallone! Occorre rovesciare il problema. Cosa facciamo per far capire l’importanza di una battaglia, come ci organizziamo, da quale parte prendiamo i problemi per farli capire? Senza rinunciare. Oppure si dice: “Noi siamo una forza di governo. Abbiamo fatto degli emendamenti, se li accettano, votiamo a favore”. Anche se gli emendamenti non mutano la sostanza, e la scelleratezza, del Piano? Si deve aprire una discussione vera. Da fare con coraggio. Deve cambiare l’anima del nostro partito. Non abbiamo certo bisogno di tornare indietro. E’ un grande bene non essere armati di ideologie. Abbiamo già dato.

Non abbiamo bisogno del télos né dello skopos, finalmente abbiamo capito che non c’è un significato nell’origine che ci guidi né un fine nella fine: dobbiamo sfangarcela noi, da soli. Anche per la politica è arrivata la sua secolarizzazione. Restiamo perciò sul terreno della democrazia. Ma non svuotiamola con un vano e cieco pragmatismo a la carte. Pensare e volere non sono peccato.

 

Arturo Calaminici

 

 


 



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