16 marzo 2010

LA RICCHEZZA DELLE CITTÀ (*)


“Vaste programme” direbbe il Generale. Capire le cause della ricchezza delle città è un compito impari, al quale fra l’altro si sono dedicati in molti. A Oxford ad esempio ho trovato in questi giorni un giovane ricercatore irlandese, Roman Lyons, che sta per scriverci sopra una tesi di dottorato, ma mi ha anche segnalato che nel marzo 2009 E. Glaeser e J. Gottlieb, della Harvard University hanno scritto un paper che s’intitola proprio “The Wealth of Cities”. Senza dimenticare che nel 2009, invitato dalla Fondazione Mattei, è venuto a Milano Daron Acemoglu del MIT, a rivisitare i concetti smithiani sulla ricchezza delle nazioni, che negli anni scorsi è venuto a Milano Richard Florida a spiegarci come nasce e si sviluppa una “creative class”, che nel 2007 Luca Beltrami ed io abbiamo scritto “La Milano della Lista Civica” con un capitolo su “Sviluppo ed Economia”, che nel 2005 Milano aveva ospitato una Conference su “Community and Technologies”, che da tempo Guido Martinotti svolge considerazioni sui cambiamenti in atto nella morfologia urbana, utili sul piano conoscitivo più che per individuare dei rapporti di causalità.

In poche righe è possibile solo identificare alcune linee-guida. Cominciamo da Acemoglu e dalla sua riflessione su Adam Smith: ci sono cause prossime nelle differenze nel capitale fisico, nel capitale umano, nelle tecnologie, nei mercati. Ma quali incentivi, sempre secondo Smith, per migliorare queste cause prossime? Pace (oggi diremmo sicurezza), tasse praticabili e un’accettabile amministrazione della giustizia. Il resto viene dal naturale corso delle cose. Diciamo quindi che la risposta smithiana sta nelle istituzioni, nelle regole del gioco. Ma quali istituzioni incoraggiano investimenti in capitale fisico, in capitale umano, in tecnologie?

Qui ci può aiutare l’analisi comparativa che Raimondo Cubeddu e Alberto Vannucci dell’Università di Pisa conducono annualmente per Società Libera (si tratta di dati nazionali). Un primo set di dati riguardano Doing Business, la raccolta annuale della World Bank: si tratta delle procedure istituzionalmente previste per avviare un’impresa, ottenere una licenza, registrare una proprietà, risolvere una controversia su un contratto.

L’Italia è messa molto male nell’ambito dei paesi UE e G8: sest’ultima nella somma delle procedure, penultima nel tempo necessario, penultima nel tempo delle procedure pubbliche, quart’ultima nel costo. Su tutto questo pesa molto, in Italia, la complessità dei procedimenti giudiziari. Un secondo set riguarda il grado di apertura concorrenziale dei servizi professionali che si manifesta attraverso l’intensità della regolazione pubblica, la libertà di accesso per i nuovi entranti, le modalità di definizione delle tariffe professionali, ecc. Qui l’Italia è addirittura ultima, mentre è terz’ultima nel grado di regolazione amministrativa ed economica dei mercati.

Di qui la vivacità dei processi di “innovazione parassitaria”, che finiscono per assorbire grandi quantità di tempo, denaro ed energie creative agli aspiranti imprenditori, il cui rovescio della medaglia è la debolezza dell’innovazione creativa, che è così fortemente correlata, secondo Richard Florida, alla felicità delle persone che vivono nelle aree metropolitane. Anche Glaeser e Gottlieb dicono che la concentrazione urbana può essere efficace nella crescita perché facilita la velocità di scambio delle idee. Invece il risultato di tutto questo è che siamo terzi nel numero di avvocati per milione di abitanti: 3019 nel 2006. Senza dimenticare l’indicatore della corruzione fornito da Transparency International, che vede l’Italia al settultimo posto. Forse i dati di questi giorni ci faranno peggiorare. Se dunque istituzioni e regole sono importanti “à la Smith” per la ricchezza di un territorio, siamo messi male.

Ma lasciamo l’analisi macro per entrare in qualche parametro micro. In un’analisi di Peter J. Taylor, che dirige il Globalization and World Cities Study Group, citata in “La Milano della Lista Civica”, Milano figurava all’ottavo posto in una classifica mondiale di “connettività globale in rete”, non lontana da Chicago e Singapore. La classifica riguarda la presenza in loco delle 100 principali imprese mondiali di servizi. Questo è un dato molto positivo, anche se le ultime vicende delle telecomunicazioni italiane ci stanno facendo perdere qualche posizione. Vuol dire che queste imprese hanno riconosciuto, quanto meno, a Milano, condizioni di agibilità che potrebbero tradursi in insediamenti.

Ma tutto questo riporta al concetto di “città digitale” che tante volte viene evocato dagli esperti di crescita metropolitana. Città in cui le reti abbiano un tale sviluppo da consentire di lavorare più facilmente e da qualsiasi luogo, di ridurre gli spostamenti, di consentire analisi più tempestive nella sanità, nello scambio delle informazioni fra gli enti e la gestione delle informazioni rivolte ai cittadini, nella gestione degli edifici e nell’ottimizzazione energetica, solo per citare alcuni esempi. Milano aveva un progetto di Wi-Fi distribuita e gratuita che avrebbe utilizzato la palificazione A2A come antenne e la rete Metroweb per il trasporto, ma se ne sono perse le tracce. Un vice ministro della Repubblica, interpellato sui fondi per la larga banda di cui anche si sono perse le tracce, ha risposto che in questo momento abbiamo altre priorità, come l’occupazione in aziende come Italtel, Ericsson, ecc. Ma non è proprio con gli investimenti in infrastrutture di banda larga che si potrebbero risolvere questi problemi? Mah.

Siamo partiti da Adam Smith e siamo saltati alla città digitale. In mezzo ci stanno tanti altri passaggi che Smith liquidava con la metafora del birraio, che abbiamo riassunto con la frase: “Il resto viene dal corso naturale delle cose”. E’ proprio così? Anche la disponibilità di case a buon prezzo? Tremonti direbbe di no per sostenere il primato della politica. Anche di questa politica?

 

Franco Morganti

 

(*) Con Franco Morganti inizia una serie di articoli tutti dal titolo “La ricchezza della città”. Il titolo, ovviamente mutuato dal famosissimo libro La ricchezza delle nazioni, vi si riallaccia solo in maniera onomatopeica.

In realtà il nostro disegno, molto più modesto, vuole essere di investigare su quali siano gli aspetti della ricchezza di Milano. La ricchezza della quale parliamo non è certo solamente quella che in termini stretti normalmente si definisce “ricchezza” da parte degli economisti ossia la quantità di beni tangibili e intangibili che abbiano valore di mercato e che poi in molti casi siano in grado di produrre a loro volta un reddito.

Noi ci riferiamo anche a tutto quello che, a partire dalle istituzioni, va a formare nel senso più largo possibile la qualità della vita che è fatta non soltanto dalla ricchezza materiale ma anche dalla disponibilità e dall’accesso a tutti i beni immateriali, dai servizi alle aspettative di vita dalla pace sociale alla salubrità dell’ambiente.

Non abbiamo certo l’ambizione di fare uno sconfinato repertorio e di esaminare dunque tutto, anche perché ognuno di noi, ovviamente, ha una diversa percezione della realtà che lo circonda e delle aspettative che porta in sé.

Vogliamo però incamminarci per questa strada con un obiettivo abbastanza preciso: individuare gli aspetti e le forme di ricchezza, nel senso ampio del quale abbiamo parlato, per capire quali siano le azioni politiche che possano portare almeno al mantenimento di queste forme di ricchezza ma soprattutto al loro accrescimento in un quadro di compatibilità reciproca.

Chiedo dunque a tutti gli amici di questa curiosa comunità virtuale che è fatta da chi scrive su Arcipelagomilano e dai lettori di aiutarci in questa iniziativa con consigli ma soprattutto con scritti.



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