2 marzo 2010

INTERNET. L’ERA DEGLI AYATOLLAH


Khomeini, l’ayatollah che guidò la rivolta iraniana contro lo scià, spediva dall’esilio cassette su cui registrava i suoi discorsi. I sostenitori in patria provvedevano a riprodurle e a diffonderle: così la voce di quell’uomo pio dall’insuperabile carisma poteva giungere a tante orecchie, rafforzando gli animi. Le immagini delle ultime proteste di Teheran ci sono giunte via internet. Dalla rivoluzione alla controrivoluzione, il paese sulle rive dell’Eufrate, s’è mostrato attento all’efficacia delle nuove tecnologie. Tanto è vero che ora il governo impone la censura, inseguendo lungo i cavi delle telecomunicazioni gli autori dei filmati, dopo aver bloccato il servizio Gmail di posta elettronica, dopo aver allestito una squadra di hacker, pronti a infiltrarsi nella rete e interrompere i canali dell’opposizione.

L’Iran segue la Cina e la sua voglia di censura contro Youtube e contro un gigante come Google. Il cui co-fondatore, Sergey Brin, denunciava: “La situazione cinese ci preoccupa. Prodotti come Youtube e Google Docs sono ancora bloccati e la quantità di informazioni censurate cresce di giorno in giorno…”. Ovviamente la sensibilità democratica di Brin si sposa a quella commerciale: l’inventore di Google sa che per i suoi affari la circolazione delle informazioni e quindi la libertà del mercato sono fondamentali. Senza riconoscere il rischio che rappresenta per gli utenti l’espansionismo di Google stesso verso condizioni monopolistiche.

Per ora internet resta un’immensa prateria: corre chi vuole e chi sa e corre dove vuole. I dubbi cominciano quando su internet compaiono corridori che non ci piacciono. Pochi giorni fa abbiamo saputo dell’ignobile bravata in rete contro i bambini down. Si invocò la censura e nessuno avrebbe protestato contro la censura. Ma qualcuno fece notare che tra gli ottocento iscritti al “gruppo” moltissimi erano coloro che protestavano indignati. Conclusione: in rete ci sono gli anticorpi. Come abbiamo letto, in questo caso è intervenuta anche la polizia postale, oscurando il sito. Per riuscirci, ha dovuto rintracciare il server, negli Stati Uniti.

Quando la miniatura del Duomo si posò sul volto del presidente del Consiglio, presto si formò il gruppo “pro Tartaglia” (Tartaglia, il lanciatore), gruppo numeroso: cinquantamila navigatori. Allora fu il ministro degli Interni a invocare e a promettere censura: in quel caso, secondo il ministro, la rete non aveva mostrato anticorpi particolarmente attivi. La situazione è complessa e c’è di mezzo la Costituzione che stabilisce libertà di espressione: nessuno mi può impedire di scrivere una lettera, ma neppure di esternare un’opinione, vestendo la parte del politico che ha a disposizione una pubblica piazza, materiale o televisiva. Internet è la mia pubblica piazza. Che si può spegnere in un amen: basta un clic. A regolare dovrebbe essere il senso critico, la cultura, il rispetto, eccetera eccetera. Ma esistono ancora? Esistessero non saremmo incappati in questa triste vicenda. Come correre ai ripari? Ci si inoltra per un sentiero che si perde in una selva oscura: in mezzo, incontriamo principi democratici, diritti nazionali e internazionali, l’infinita ambiguità delle parole, intrecci tecnici inestricabili, una partita tecnologica che è in perenne movimento, leggi che nella fattispecie italiana lasciano aperta la strada a interpretazioni contrastanti e talvolta sorprendenti. Vedi la sentenza di pochi giorni fa del Tribunale di Milano, la condanna nei confronti di alcuni dirigenti di Google Italia: si rimanda al video comparso in rete, nel 2006, video in cui un ragazzo down veniva “tormentato” da un compagno in un’aula scolastica.

La sentenza ha riconosciuto la responsabilità di Google: avrebbe dovuto vigilare sui contenuti, contenuti che hanno violato le regole della privacy. Si capisce che una sentenza così sarebbe una rivoluzione, il classico cuneo perchè salti il sistema. Come controllare milioni di utenti? Come verificare ogni caricamento di contenuti su un portale di dimensione mondiale? E sulla base di quali criteri preventivi si potrebbe effettuare una selezione?

Nel mare dei regolamenti, compare una legge europea che mette i providers
al riparo dalla responsabilità, a condizione che rimuovano i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza, secondo un meccanismo di “segnalazione e rimozione”. Ma se questo logica venisse meno e siti come Blogger o YouTube fossero ritenuti responsabili di ogni contenuto caricato sulle loro piattaforme, il web come lo conosciamo cesserebbe di esistere, e molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici ad esso connessi potrebbero sparire. Come se si considerasse Tim o Vodafone responsabili di quanto ci raccontiamo al telefono, affari oppure oscenità.

Con la sentenza milanese (vedremo a conclusione dell’iter processuale) ci presentiamo in un certo senso capifila nella campagna per una (dura) regolamentazione, campagna che s’è trascinata in varie puntate, con spunti difficilmente rintracciabili nella legislazione di paesi democratici: nel corso del 2009 dall’emendamento D’Alia (Pdl) nella legge sulla pubblica sicurezza (presentato sull’onda dello sdegno per la presenza su internet di voci che inneggiavano alla mafia) al disegno di legge della senatrice Carlucci (Pdl) poco dopo e per ora nelle secche della commissione trasporti, che equiparava blog e social network alla stampa. In questo caso il gestore di un blog o forum, anche il più piccolo, sarebbe diventato responsabile legalmente per tutti i contenuti pubblicati dagli utenti. Come capita per il “direttore responsabile” di un quotidiano.

L’ultimo atto, ai primi giorni dell’anno, è il decreto Romani, il viceministro alle attività produttive, un regolamento pensato in applicazione di una normativa europea in materia di telecomunicazioni e pubblicità: introduce l’obbligo di autorizzazione preventiva per quei siti che trasmettono immagini in movimento. In modo “continuativo”, è stato aggiunto nella formulazione definitiva. Estendendo così il concetto di media audiovisivo ai servizi di fornitura d’immagine tramite internet. Un primato per l’Italia, che s’avvia ad essere l’unico Paese occidentale nel quale è necessaria per questo tipo di servizi un’autorizzazione preventiva. Ma si è presentato un ostacolo: non si sa chi debba concedere l’autorizzazione, l’Autorità delle telecomunicazioni o il ministero.

Ci si può chiedere perché un sito internet che ospita i filmini delle gite in montagna di un visitatore dovrebbe chiedere un’autorizzazione. Ma non è difficile intuire che non sono le gite in montagna il bersaglio, ma qualsiasi fonte d’informazione sostitutiva, per di più televisiva. La concorrenza è un tabù in Italia, rischia di diventarlo anche la libera espressione. Sarà noioso ripeterlo, ma è evidente che, ancora una volta, allo stesso modo discutendo di politica o di mercato pubblicitario, ci s’imbatte nel conflitto d’interessi.

 

Oreste Pivetta

 


 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti