18 ottobre 2017

LIA RUMMA: LAVORARE NELLE PERIFERIE É UN DOVERE E UNA NECESSITÀ

A Milano manca ancora un Museo di Arte Contemporanea


Continua la serie di interviste, che si era aperta con la voce di Antonio Calabrò, a professionisti e intellettuali attivi sulle aree complesse della periferia milanese. Conversiamo ora con Lia Rumma, una delle protagoniste dell’arte contemporanea italiana. La intervistiamo nella sua galleria di via Stilicone, nel quartiere Cenisio-Mac Mahon, dove si è trasferita nel 2004 dalla storica sede di via Solferino, che aveva aperto nel 1999.

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La sua scelta di trasferire la galleria da via Solferino alla più periferica via Stilicone ha contribuito molto a rivitalizzare questo quartiere. Durante le inaugurazioni delle vostre mostre la via cambia completamente aspetto, si riempie di centinaia di persone e di moltissimi giovani. Ma al di fuori di questi appuntamenti la quotidianità del quartiere, i suoi comportamenti, sono cambiati? Il suo spazio, la sua attività, come sono stati accolti dagli abitanti?

È una scelta che ho fatto d’impulso. Il progetto era ambizioso, volevo dare vita a un grande spazio pubblico per l’arte, non ancora esistente in città, e non mi spaventava la zona meno nota e frequentata perché ho sempre avuto la convinzione che portare arte e cultura volesse dire portare in breve tempo vita e riqualificazione. E così è stato, la zona è cambiata tanto, e più volte sono venuti abitanti del quartiere a ringraziarmi, conservo ancora una bellissima ed emozionante lettera di uno di loro. Il merito ovviamente non è stato solo mio, c’è Fonderia Battaglia, con la quale abbiamo stretto un forte sodalizio, c’era Peep-Hole e altre iniziative culturali molto attive, la stessa Fondazione Milano con la Civica Scuola di Musica a Villa Simonetta. Le nuove fermate della linea 5 della metropolitana ci hanno poi molto aiutati.

Non sono comunque nuova a questo tipo di scelte, a Milano nel 2004 ho curato la grande installazione site-specific de I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer in Hangar Bicocca. Allora si entrava ancora dalla strada interna della portineria Breda. Con Pirelli abbiamo dato a Milano un segnale di coraggio perché fuori dal centro, in periferia, si poteva immaginare e creare un centro di qualità e ambizione internazionale.

Tobias Zelony ha prodotto con lei Vele (2014) nella periferia napoletana più estrema. Milano ha zone di degrado e disagio profondo, che forse non sono ancora state rappresentate. Come si coniugano le due parole, arte e periferia?

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Lavorare nelle periferie è un dovere e una necessità. Sono il polmone che dà ossigeno alla città e la produzione e diffusione di cultura hanno un ruolo fondamentale nel riqualificarle. Le fotografie di Tobias non insistono sul degrado, la criminalità. Le Vele non sono solo Camorra, abbatterle è un errore, dobbiamo piuttosto abbattere la Camorra! In quel complesso sono nate anche esperienze positive di comunità. I soldi, tanti e troppi, che vengono usati per demolire le Vele basterebbero per costruire spazi di aggregazione, di sostegno sociale, di produzione di cultura. Di questo c’è bisogno nelle periferie, a Napoli come a Milano e in tutte le città. Alcuni segnali positivi ai quali guardare però ci sono. In questo momento per esempio la Regione Campania, già fondatrice del Madre, sta portando avanti con me un progetto di collaborazione per celebrare i 50 anni di Amalfi ’68, tappa fondativa del movimento dell’Arte Povera. Collaborazioni di questo tipo tra pubblico e privato dovrebbero moltiplicarsi.

Il sistema dell’arte contemporanea a Milano si appoggia su alcuni pilastri: un potente collezionismo, istituzioni pubbliche dedicate alla esibizione/divulgazione, non alla produzione, che invece viene assunta come responsabilità dal privato, dalle grandi fondazioni e gallerie. Quale è la sua opinione? Vede segnali di cambiamento o il sistema le sembra ormai inamovibile?

Il privato produce con molta energia ma le istituzioni pubbliche dovrebbero aiutarci a sostenere gli artisti e i progetti, stabilire relazioni e scambi internazionali, consolidare un Modello Milano, Modello Napoli, insomma un Modello Italia. In poche parole la politica dovrebbe cominciare a credere nella capacità espansiva dell’arte contemporanea, trasformare la nostra energia in sinergia virtuosa tra pubblico e privato. A Milano manca ancora un grande Museo d’Arte Contemporanea. Fino a quando la città non accetterà questa sfida saremo purtroppo costretti a dire ai nostri artisti di andare all’estero, come a suo tempo ho consigliato, per esempio, a Vanessa Beecroft.

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L’egemonia di moda e design dà molto alla città ma non è sufficiente se non si completerà con la trasversalità, le spinte, le intuizioni e i rischi che gli artisti e i produttori assumono. Se Milano vorrà essere a pieno titolo una metropoli europea è indispensabile costruirvi anche un Museo e una collezione d’arte contemporanea. Serve alla formazione degli artisti, alla produzione, agli scambi, alla presenza italiana nel circuito internazionale. Tutte le grandi città hanno un’istituzione di riferimento e per promuovere progetti congiunti chiedono la disponibilità di un grande centro istituzionale corrispondente. Il modello della Tate Modern di Londra può essere un riferimento di qualità della produzione e delle regole di gestione.

Chiara Ponzini

Foto ritratto di Luca Maria Castelli. Foto 1 di Corinna Cappa. Foto 2 di Werner Hannappel.



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