18 gennaio 2010

COSTI DELLA POLITICA. TAGLIARE GLI SPRECHI NON LA DEMOCRAZIA


Sui media ritorna ciclicamente il tema dei costi della politica. V’è indubbiamente, sull’argomento, la necessità e l’urgenza di affrontare una razionalizzazione generale del sistema istituzionale del nostro paese, per evitare gli sprechi, e rendere più funzionale la pubblica amministrazione. Per taluni opinionisti dei maggiori quotidiani, il problema sembra sia rappresentato dalle province, che costano inutilmente, e che bisognerebbe avere il coraggio di abolire. In argomento, io, milanese, sono tra coloro che condividono, innanzi tutto, l’esigenza di realizzare con urgenza. In quest’area, la Città metropolitana (chiamiamola così, o in qualsiasi altro modo), destinata, tra l’altro, ad assorbire l’ente provincia. Un’operazione, peraltro, complicata, a me sembra, dal fatto dell’avvenuta istituzione della nuova provincia di Monza.

Tornando al tema delle province in generale, mi chiedo tuttavia se sia ora il caso di riportare l’orologio indietro di anni, riaprendo una discussione che dovrebbe considerarsi conclusa, perlomeno per il medio periodo, con l’avvenuta approvazione, nel 2001, delle modifiche alla parte seconda della Costituzione, confermate dal referendum popolare. Modifiche che hanno rafforzato, in parte ridefinendolo, il ruolo degli enti locali, province comprese. La nuova Costituzione mi pare abbia disegnato un assetto adeguato e coerente: un quadro costituzionale e istituzionale chiaro, organico, pulito, mi verrebbe da dire.

Un disegno che prevede come noto, che lo stato abbia competenza su ben determinate materie che non possono che essere attribuite al livello centrale (moneta, politica estera, esercito, eccetera), mentre le regioni l’abbiano su ogni altra materia non espressamente assegnata, appunto, allo stato. Ma la competenza regionale è di natura squisitamente legislativa e pianificatoria, mentre le funzioni amministrative sono attribuite interamente ai comuni, salvo il caso della necessità di un eventuale esercizio unitario da parte di province, città metropolitane, regioni o stato.

Un quadro chiaro, ribadisco, nel quale la provincia è cosi tenuta a gestire soltanto le funzioni che riguardino i problemi che superano i confini dei singoli comuni. E a occuparsi, in raccordo con la regione, e coordinandosi con i comuni, di programmazione, economica, territoriale, sociale, e ambientale. Nonché di attività di promozione e di sostegno ai comuni medesimi, in particolare quelli di piccola dimensione. Programmazione, non gestione, dunque. Nonché coordinamento, promozione, sostegno. Funzioni sussidiarie, perciò, in un certo senso. Salvare l’Italia abolendo le province, pare, in ogni caso, il leit motiv del momento, finita (forse), l’era dell’attacco dello stesso tenore alle prefetture, sferrato in particolare dalla Lega Nord Oppure, mantenerle, le province, ma soltanto quali unità tecnico-operative, come pure è stato proposto. In proposito, io ho qualche dubbio che decidere in particolare su viabilità, trasporti, inquinamento, formazione professionale, grandi insediamenti (i già citati problemi di area vasta), debba competere soltanto alla dimensione tecnica, e considero in particolare che le citate funzioni di programmazione, di coordinamento e di supporto ai comuni siano di natura squisitamente politica.

Ma se allora, per i suddetti opinionisti, il problema pare ridursi alla questione degli stipendi (il termine è ovviamente improprio) di presidenti, assessori e consiglieri provinciali, io credo si possa fare di più e di meglio, in Italia, per risparmiare. Riducendo per esempio i privilegi di tutti politici, che sono peraltro assai diseguali da categoria a categoria (quelli dei provinciali non parrebbero scandalosi, in confronto ad altri), a partire da quelli dei parlamentari, il numero dei quali potrebbe, innanzi tutto, essere ridotto in misura anche significativa. Del resto, che senso ha avere conferito alle regioni un’enormità di competenze legislative, e continuare a mantenere un migliaio di parlamentari?

In ogni caso, forse, fermo restando che non ha indubbiamente senso crearne di nuove, più che sopprimere tout court le province esistenti, la gran parte delle quali ha una storia lunga e importante, o comunque prima di farlo, varrebbe la pena di sperimentare davvero la piena attuazione del dettato costituzionale sopra descritto, imponendo soprattutto che ciascuna istituzione si mantenga nel proprio ambito di competenza e non invada campi altrui: lo stato non sia accentratore. La regione non riproduca, per parte sua, neocentralismi, e si limiti, appunto, alla legificazione, alla grande pianificazione e alla necessaria funzione di coordinamento infraregionale, trasferendo tutta l’attività amministrativa agli enti locali. Le stesse province (che giustificano la loro esistenza, innanzitutto, se hanno, insieme, una popolazione adeguata e un territorio peculiare. Monza ha quest’ultimo?), infine, non esercitino competenze dei comuni, come pure, da qualche parte, accade. Tutti gli enti, poi, valorizzino pienamente le risorse interne, evitando possibilmente la moltiplicazione di agenzie, istituti, sub enti e quanto altro, riducendo la proliferazione delle consulenze, e astenendosi dall’ attuare, le amministrazioni subentranti, uno spoil system selvaggio. Ridurre i costi della politica è indispensabile e possibile, dunque. Credo, però, serva anche la consapevolezza che, come detto, la democrazia resta un bene fondamentale. In proposito va allora segnalata anche l’imprescindibile esigenza di ridare dignità alle assemblee elettive degli enti locali, oggi in evidente crisi d’identità e di ruolo.

Vincenzo Ortolina



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