17 maggio 2016

SE MI GUARDO INTORNO NELLA MILANO DEI GRATTACIELI

Riflessioni e spaesamento in una città indecifrabile


Almeno una volta alla settimana mi capita di transitare da viale Tunisia verso la stazione Garibaldi, in genere nella tarda mattinata. Scelgo l’ampio marciapiede di un bagliore accecante sotto il sole dalla parte dei vitrei palazzoni o grattacieli di viale della Liberazione, dopo aver traversato non senza qualche difficoltà per una curva e una controcurva fino al semaforo (ma chi disegna i percorsi pedonali?). Proseguo, costeggiando vetrate e vetrate, che si interrompono di tanto in tanto con una porta aperta da un elettricista in opera di manutenzione o da un fattorino su sale oscure e all’ingresso di un parcheggio sotterraneo.

09pivetta17FBLeggo insegne di multinazionali e altre francamente incomprensibili ai miei occhi. Arrivato in fondo, prima di Melchiorre Gioia, risalgo la scala che mi conduce alla passerella: a destra un grande buco, a sinistra lavori in corso. Guardo sempre un po’ in là, verso la vecchia caserma della Guardia di Finanza, dove una volta entrai quando si ricordava il generale Alfredo Malgeri, medaglia d’oro della Resistenza (contribuì, allora colonnello, alla cacciata dei tedeschi da Milano). Ancora pochi passi e sono in piazza Gae Aulenti, nel cuore della nuova Milano e delle sue magnifiche sorti e progressive.

Di fronte alla gelateria non si sono formate code (sempre mi chiedo se solo sotto quel marchio si producano gelati a Milano), taglio di fronte costeggiando il laghetto traboccante e mi infilo alla Feltrinelli, dalla quale vengo cacciato da forti sentori di sughi e carni, oltre che dall’accatastamento di pochi (e per lo più mediocri) libri. Continuo e sfioro l’ingresso della torre di Unicredit. Prima di imboccare la scala mobile, rivolgo l’attenzione attorno, un giro d’orizzonte, e inevitabilmente mi spunta una domanda: che ci faccio qui? Domanda molto personale, si intende.

Che ci faccio qui davanti a porte sbarrate dai sistemi di sicurezza, davanti a interminabili verso il cielo pareti a specchio che potrebbero nascondere ai miei occhi qualsiasi cosa o il nulla assoluto, monumenti astratti a onore di una banca o di una fabbrica di televisori e telefoni, costeggiando vetrine di negozi (ma ha ancora un senso chiamarli così?), che sembrano ostentare l’accessibilità come un privilegio, scrutando da lontano una parete alberata lungo la quale per le leggi della proprietà privata e per quelle della gravità non potrei mai passeggiare, per quanto io possegga qualche attitudine alla verticalità essendo stato un discreto alpinista.

Ho chiacchierato a lungo con amici e parenti della “nuova” Milano. Ho ascoltato opinioni diverse, ho raccolto testimonianze di grande entusiasmo. Non credo valga la pena di dire se piazza Gae Aulenti mi piace o non mi piace, se ciò che mi circonda è bello o brutto. La conclusione cui sono arrivato camminando e osservando è una sola: non riesco a stabilire alcuna relazione con questa città, che è per me solo un fondale, una scenografia inanimata, una operazione immobiliare probabilmente necessaria che avrà probabilmente reso agli investitori discreti profitti.

Ho ripensato a una definizione letta in un saggio di Colin Ward (in un numero della rivista di Goffredo Fofi, “Lo straniero”,  e presto in una raccolta di scritti dell’anarchico inglese che verrà pubblicata da Eleuthera). A “grana fine”, scrive Ward, spiegando la differenza tra la città tradizionale (il riferimento è all’antico nucleo della città medioevale in Inghilterra) e la città contemporanea, cresciuta negli ultimi decenni, la prima, malgrado la sua complessità, assolutamente trasparente agli occhi del passante, la seconda di “assoluta opacità”.  Il testo di Ward ovviamente racconta molto altro. Ne traggo brutalmente solo un paio d’espressioni.

Mi colpisce però questa contrapposizione trasparenza-opacità, che da un senso alla mia “indifferenza” e alla convinzione che quei diamanti, quelle torri e quei giardini verticali potrebbero ospitare qualsiasi attività e stare ovunque, corpi estranei calati fortuitamente dal cielo. (Potrei aggiungere, per scontata deduzione e perché mi è capitato di scriverlo più volte, che ad esempio sarebbe stata una scelta illuminata collocare il grattacielo formigoniano nell’area di Rho-Pero piuttosto che in un quartiere già ultra congestionato).

Alla scala mobile si conclude la mia passeggiata verso la metropolitana. Scendendo scorgo nel seminterrato sotto di me persone con i sacchettoni gialli della spesa: escono dal supermercato e mi restituiscono il senso della mia mediocre realtà.

Oreste Pivetta



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