19 aprile 2016

FUORISALONE. SEMPRE PIÙ GENTE, SEMPRE PIÙ IDEE. PERÒ …


Frequento da alcuni anni il cosiddetto “Fuorisalone”. Non che insegua inaugurazioni e calici di prosecco o di franciacorta. Percorro le strade consacrate, dal mio amatissimo Corso Garibaldi a Brera alla lambratese via Ventura, con curiosità antropologica. Intanto mi piace ascoltare le parlate straniere, molto inglese e molto tedesco. Mi compiaccio se un ragazzo italiano accompagna la biondina londinese, conversando con buona pronuncia e discreto vocabolario anglosassone, cancellando la memoria del gergo da amante romagnolo.

02pivetta14FBPoi catalogo le nazionalità: dal Giappone al Sudamerica al Nord Europa, dal Senegal al Marocco. Mi sento per un poco lontano dalla provincia italiana. Verifico gli abbigliamenti, considerando il fatto che la moda detta legge, che le barbe hipster s’impongono (speriamo che i loro possessori sappiano qualcosa di hipster*) e che la scarsità dei mezzi stimola la creatività con risultati che i sarti o le “star” della sartoria non saprebbero immaginare (vale sempre il contrario, purtroppo: scimmiottare è un peccato d’ogni stagione).

Constato la fame, la sete e la voracità dei più: l’appetito è un segno di buona salute e comunque torna utile quando si tirano le somme (degli incassi). Infine considero gli oggetti esposti e in questo caso mi trovo in grave difficoltà, ancorato per questione generazionale al tempo che fu del sobrio (ma quanto raffinato) funzionalismo dei maestri. Confesso, con grande timidezza, d’aver contato un’infinità di stupidaggini e di stramberie assieme a cose e cosine intelligenti, carine, persino belle, idee che incuriosiscono e che stimolano. Soprattutto per merito dei più giovani designer e artisti, attorno a via Ventura.

Deve essere così: si sperimenta, si gioca, si inventa, si butta, qualcosa rimane e, magari, finisce nelle linee di produzione di un’azienda prestigiosa.  Insomma mi verrebbe da concludere che il Fuorisalone è una Grande Festa (sarebbe meglio: una Vasta Festa) che invade la città, che la vivacizza, che vivacizza i suoi bilanci economici e culturali. Potrei persino concludere che il Fuorisalone oltre che una Grande Festa è quasi un Festival o il principio di un Festival, tipo Cannes o Venezia, perché quel nastro di persone che sfila lungo Corso Garibaldi o dalla Stazione di Lambrate verso via Ventura mi sembra la pellicola di un film (so che la pellicola non si usa più, ma non importa): tanti fotogrammi di una storia in progress, nella quale il tema di fondo resta il lavoro.

Molti giovani hanno trovato in quei tre giorni un lavoro più che precario e di certo sottopagato, vendendo magliette o borse, mescendo birre o scaldando panini, vigilando sulle mostre o allestendo esposizioni, ma anche progettando lampade, panche, sedie, piatti, ciotole e in questo attivismo resistono speranza e fiducia, merce rara di questi tempi.

A proposito di altri tempi… Sulla parete di fondo dello studio di grafica di un mio amico, proprio in via Ventura, compare un’enorme foto in bianco e nero: ritrae operai, in una giornata grigia, uno in Lambretta con la moglie o la fidanzata, un altro in bicicletta, altri ancora a piedi, lasciano la fabbrica e intanto ne costeggiano il muro esterno, neppure un’auto alla vista. La loro fabbrica è la Faema, che ora a Lambrate non esiste più, poco lontana da un’altra grande fabbrica che non esiste più, l’Innocenti della Lambretta. La foto è bellissima (e ce ne sono molte in archivio altrettanto belle). Me ne ricorda un’altra, molto più famosa, di Enrico Patellani: primo dopoguerra, un operaio in tuta, a mano conduce la bicicletta, al braccio la giovane moglie che sorride. Mi piacerebbe pensare che i giovani vivano il Fuorisalone con le stesse speranze, con la stessa fiducia.

Non credo che si possa ricavare dalla folla di Corso Garibaldi o di via Ventura l’indizio di una ripresa che non c’è, malgrado qualcuno la scopra a ogni angolo di strada. Ma la vivacità materiale, che ci si augura comunque intellettuale, intravista qui e altrove è una risorsa. Milano, dopo l’Expo, il suo compitino lo sta svolgendo, senza grandi registi e senza grandi interpreti, anche grazie ai frequentatori per lo più anonimi del Fuorisalone. Che cosa resta? Mi restano la sensazione o l’illusione che una società dormiente contenga ancora qualche dinamismo e la voglia di fare. Altre storie danno sensazioni opposte: vedi il referendum. Ma cito il referendum senza voler dare la colpa di tutto alla politica, perché nelle storielle che ho raccontato qualche merito la politica l’avrebbe pure.

 

Oreste Pivetta

 

*) Hipster è una subcultura composta da giovani bohemien della classe ricca e media che risiedono principalmente in quartieri emergenti. Questo genere di sottocultura è ampiamente associato alla musica indie e a quella alternativa, con una variegata sensibilità alla moda alternativa e ad una predilezione per la politica progressista ecologista, per i cibi biologici e slow food, l’artigianato e gli stili di vita alternativi. (Wikipedia)



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti