28 ottobre 2015

FEEDING THE PLANET, CON JUICIO


Un’involontaria profezia ha fatto di Milano un luogo speciale (unico?) con l’Expo. «Feeding the Planet, Energy for Life» è questione di civiltà, oggi fortemente politica. Alain Tarrius individua i “territori di circolazione” di 600 mila commercianti transnazionali itineranti tra Europa, Africa e Asia. «Turchi, Magrebini, Caucasici, Balcanici, Mediorientali … si integrano nel modello globale che si diffonde: scambi orizzontali transfrontalieri ultraliberali di prodotti delle imprese globali più importanti (elettronica, farmaceutica…) organizzati “poor to poor”.

12gario37FBProfitti senza contraddizioni evidenti con l’economia “ufficiale” e le sue gerarchie, né con l’economia criminale. Le frontiere continentali, quelle nazionali, quelle delle reti transnazionali e quelle urbane si svelano antagoniste e interdipendenti: se le une si affermano, le altre smantellano»: le frontiere nazionali sono superate sia dall’unità europea sia dalla “implosione”, nelle nazioni, delle varie cittadinanze mondiali. La figura dello straniero ne è trasformata e lo Stato non è più matrice dell’integrazione [Étrangers de passage. Poor to poor, peer to peer, Éditions de l’Aube, 2015, p. 104].

Mobili su migliaia di chilometri, conoscono i nostri territori meglio di noi, e nei rapporti fiduciari con gli immigrati già residenti mostrano le «capacità civilizzatrici della società multietnica entro gli scambi e le alleanze nei territori di circolazione» [p. 44]. Con loro la globalizzazione entra nei nostri territori “dal basso” [p. 16] e serve lo sterminato mercato reso solvibile dall’incrocio tra tecnologie e beni low cost per poveri, commercializzati da altri poveri [p. 8-9], riedizione su vastissima scala dell’invisibile complementarità tra vita notturna e diurna propria delle metropoli [p. 157].

Visibilissimo è invece chi cerca salvezza dalla guerra via smartphone [Jean-Baptiste Chastand, «Si on demande l’asile en Serbie, comment ça va a se passer?», Le Monde, 17/09/2015, p. 4] e vuole integrarsi in un’Europa dove «la stragrande maggioranza della popolazione non ha l’opportunità di viaggiare o persino di avere scambi con un paese straniero che, pur molto vicino, è sconosciuto» [Jean-Jacques Roche, in Elisabeth Vallet (ed), Borders, Fences And Walls. State of Insecurity? Ashgate Co., 2014, p. 114]. Ad esempio, nel 2014 solo un polacco su cinque ha avuto contatti con stranieri [Jakub Iwaniuk, «La crise des réfugies déchire la Pologne», Le Monde, 23/09/2015, p. 2]. Conclude Roche: «Se frontiere buone non bastano a creare buon vicinato, le cattive necessariamente solleveranno problemi sociali che i governi democratici si sono dimostrati impotenti a risolvere».

Pessime, scrive nello stesso libro Serghei Golunov, sono le frontiere murate, che non funzionano perché esigono equipaggiamenti costosissimi e bassi livelli di corruzione tra le guardie di frontiera e i servizi doganali. «La decisione di costruire una recinzione di solito è una scelta non tra una buona e una cattiva opzione, bensì solo tra due opzioni cattive, fatta sotto la dura pressione di circostanze esterne e pubblica opinione interna» [p. 127].

L’Ungheria di oggi, si direbbe. Ma sempre in quel libro Elisabeth Vallet e Charles-Philippe David, ci dicono che è un enorme business e i contratti sono così grossi da imporre consorzi tra le imprese e joint-venture tra gli Stati. «I leader dei consorzi sono ricorrenti: EADS, BAE Systems (UK), DRS Technologies and Ratheon Corp. (USA), LG Electronics (Sud Corea), THALES (Francia) con moltissimi subcontraenti interni e internazionali (spesso israeliani)» [p. 149]. Dove è stato costruito, «il muro ha allontanato i vicini, resi reciprocamente estranei. E fino a che i rapporti bilaterali sono bloccati, il problema all’origine della costruzione del muro, irrisolto, seguita a marcire; è soltanto stato coperto dal muro. Anzi, il fallimento nello stabilire un dialogo alimenta la radicalizzazione del discorso imperniato sulla sicurezza».

Ma non è stato il sistema securitario-industriale il principale pilota dell’espansione dei muri. Già ansiosi, causa la globalizzazione, dopo l’attacco alle torri l’11 settembre gli Stati, e con essi le imprese, hanno visto nelle fortificazioni di frontiera una panacea. «I muri di confine sono anzitutto e soprattutto muri di denaro. Separano i ricchi dai poveri, il nord dal sud, chi è dentro da chi è fuori. E sono un lusso superfluo che solo alcuni Stati possono permettersi, una specie di terapia nazionale di gruppo, più che una struttura di difesa nel senso classico del termine» [p. 150]. Terapia costosa anche in vite umane.

«In conclusione, una grossa banalità di mattoni, con esiti spropositati», scrive nello stesso libro Jean-Marc Sorel: per le sue conseguenze disumane «il muro deve passare dall’ombra alla luce, dalla banalità allo scandalo e, ciò che più conta, dalla legalità all’illegalità» [p. 141]. «Il ruolo centrale della tecnologia ricorda il “limes” romano, la tecnologia di allora. Da essa ci si attende il controllo pieno e ampio sul confine. Ma la storia del “limes” o altre “linee Maginot” ha mostrato che questo senso di sicurezza è in gran parte illusorio e che le soluzioni puramente tecniche non esistono», lo ricordano nello stesso libro Vincent Boulanin e Renaud Bellais [p. 244]. Così pure i Manciù, «oltre la Grande Muraglia, che attraversavano indisturbati per compiere le loro scorrerie» e avrebbero poi conquistato la Cina [Timothy Brook, Il cappello di Vermeer. Il Seicento e la nascita del mondo globalizzato, Einaudi 2015, p. 108].

Dal crollo del muro a Berlino e della cortina di ferro è nata l’Unione Europea, già comunità economica sorta dalle rovine di un’Europa dove si stima che «fra il 1939 e il 1945 il numero totale delle persone deportate, evacuate, costrette ad abbandonare il proprio paese sia intorno ai 50 milioni, ovvero al 10% dell’intera popolazione europea. Neppure nel 1945 – come era già accaduto nel ’18 – la conclusione della guerra coincide con la fine delle migrazioni forzate: basti pensare ai circa 12 milioni di tedeschi che vengono espulsi dalle regioni orientali» [Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, il Mulino 2008, p. 10]. Già allora «accusati di essere portatori di malattie, inclini al parassitismo e alla criminalità» [p. 67].

L’Europa unita «può funzionare in base al consenso condizionale degli Stati membri, fondato sul rispetto delle norme democratiche. Infatti, il modello è eccezionalmente fragile e fondamentalmente esposto ai capovolgimenti. I processi di de-democratizzazione in uno Stato o in un livello possono avere effetti sistemici» [Eric Oddvar Eriksen e John Eric Fossum, Rethinking Democracy And The European Union, Routledge 2012, p. 207].

In Ungheria il premier «Orban sfrutta le reticenze dei paesi dell’Europa orientale che già ritengono di non riuscire a integrare i milioni di “altri” che sono i Rom. Ma si fa anche rappresentante di un “cristianesimo politico” meno preoccupato della giustizia sociale che dell’ordine morale – del quale è esempio unico Putin, che fa leva su una ortodossia tradizionalmente infeudata negli zar» [Joëlle Stolz, «Viktor Urban encourage un schisme au sein de l’Union européenne», Le Monde, 17/9/2015, p. 14]. Il cesaro-papismo ungherese sposa quello russo di Putin e semplicemente non è Europa, dove non c’è più posto per i politici che hanno dio in una tasca e noi nell’altra.

Manzoni racconta l’imbelle governatore che, nei tumulti per il pane, con juicio va a rinchiudersi. Gli immigrati ci salvano dalla guerra spingendoci a una politica estera europea: «non è più possibile fingere che il problema dei rifugiati non c’è o è di altri» [«Angela the beleaguered», The Economist, 10-16/10/2015, p. 15]. Il rischio di sottomissione di noi europei sta nella nostra deriva mediorientale in tribù violente, murate e guidate da impotenti capi-tribù.

L’Expo indica che nonostante tutto sappiamo stare al mondo. Vedremo se è davvero così.

Giuseppe Gario



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