9 settembre 2015

ECONOMIA E SOCIETÀ: CHI CI SALVERÀ DAGLI “ORTODOSSI”?


Essere perdonati perché non si sa ciò che si fa è atto di civiltà, non un merito. Il merito è non rifare gli stessi errori. «Non essere schiavi dell’accumulo, che impedisce di vivere. L’amore, l’amicizia, i progetti condivisi. Sono queste le cose per le quali vale la pena di vivere», ad esempio qui e ora. Lo dice José Mujica Cordano, fino a due mesi fa presidente dell’Uruguay, «leader di statura mondiale» secondo The Economist (Roberto Da Rin, “La felicità secondo Pepe“, Il Sole 24 Ore, 12/07/2015, p. 24). La sua presidenza è merito degli elettori, suo è aver realizzato l’idea del guru del MIT Nicholas Negromonte, dando a ogni scolaro un Pc portatile e Wi-Fi gratis a ogni scuola pubblica.

08gario30FBIl cambiamento comincia nei piccoli, e nei giovani studenti di economia. Dopo la laurea Irene Van Staveren si vide respinto il progetto di dottorato, ispirato a Amartja Sen e al ruolo di etica, potere, genere in economia. Dopo averci provato e riprovato andò a lavorare, come agli eretici impongono i neoliberali, per i quali il lavoro è condanna. Ma dopo otto anni, dalle università americane tornò in Olanda un professore che conosceva Sen e la accettò come dottoranda in economia eterodossa. Ora Van Staveren insegna Pluralist Development Economics all’università Erasmus a Rotterdam.

Nel 2015 ha pubblicato Economics After the Crisis. An Introduction to Economics from a Pluralist and Global Perspective (Routledge). “Dove si è sbagliato?” si chiede nell’introduzione. È comune consapevolezza che l’economia ortodossa è stata una causa della crisi finanziaria asiatica nel 1997 e globale nel 2007, per due motivi. Primo, insegna che ognuno agisce indipendentemente da tutti gli altri e solo nel proprio interesse e, anche se fa volontariato, si chiede sempre solo wiifm (what’s-in-it-for-me)? Secondo, insegna che ognuno si affida solo alla probabilità individuale di guadagnare o perdere in ogni decisione: i rischi individuali si aggregano senza interagire. Il rischio sistemico è ignorato. Come si fa a prevedere una crisi che non può esistere? Perciò, esplosa la crisi, il network online Real-World-Economics, con 11.000 membri, in risposta al “we-could-not-know” assegnò il Revere Award a tre fra gli economisti che avevano previsto la crisi, dati alla mano: Steve Keen nel 2006, Nouriel Roubini nel 2005 e Dean Baker dal 2002.

Dai due dogmi dell’economia ortodossa sono nati modelli economici, strategie d’affari e indirizzi politici che hanno fatto crescere sempre più i livelli di rischio finanziario nel mondo, trasferendo in parte i rischi a contribuenti, disoccupati e poveri con scelte egoiste e di potere.

Ma l’economia non è una somma di individui, è un sistema in cui interagiscono comportamenti e motivazioni umane molto diversi, che come tali vanno conosciuti. Il punto di forza dell’economia eterodossa è anche quello di maggiore debolezza, perché la sua attenzione alle persone e ai contesti del mondo reale rifiuta i modelli matematici e le loro previsioni probabilistiche. Previsioni che i fatti dimostrano però avulse dalla realtà. È meglio essere vicini al mondo reale grosso modo, che sbagliare con precisione. Ma gli economisti ortodossi sono esseri umani, proteggono i loro interessi accademici, politici, professionali e vogliono ancora credere e farci credere che l’offerta di mercato crea la propria domanda, stabilendo un equilibrio in cui ognuno trae il massimo beneficio dall’uso il più efficiente possibile di risorse scarse.

È falso, lo dicono fatti e ragione, e se ci aspettiamo che l’offerta di una nuova scienza economica produca di per sé il cambiamento, continuiamo a sbagliare perché l’offerta non crea la sua domanda e non ci fa vivere tutti felici e contenti. Il cambiamento non sta nell’illusione, ma in nuovi studi, informazioni, politiche, think-tank; anche il Fondo Monetario Internazionale oggi agisce in modo diverso dai tempi della crisi asiatica. La domanda principale di cambiamento viene dagli studenti, promessa di futuro, purché oggi continuiamo a studiare, cercare, educare.

Docente all’università di Utrecht, in prefazione a Multidisciplinary Economics. A Methodological Account (Oxford UP, 2015), Piet Keizer indica il limite dell’economia ortodossa, che nell’umanità vede solo individui isolati di cui considera solo l’aspetto economico, come se non avessero interessi e legami sociali, politici, psicologici con le loro ricchezze e incertezze. Anche le economie nazionali sono considerate separatamente e devono competere come imprese sui mercati globali. Ma in Europa la depressione nasce da fuori e le economie ne soffrono insieme. Spinte da Bruxelles a ridurre spesa pubblica e salari, sono nella pericolosa spirale involutiva tipica dell’economia ortodossa: crisi economica e fiscale si alimentano reciprocamente. Poiché l’UE è il 34% del commercio mondiale (Asia 23, USA 15%) la spirale è globale. Ma gli economisti ortodossi non sono educati a analizzare la realtà confrontando i paradigmi dei diversi punti di vista, e la loro soluzione è sempre la stessa per ogni problema. Poiché la realtà è in sé un sistema aperto, soggetto a traumi continui, sono intolleranti: chi non è d’accordo è incompetente.

Il pluralismo riconosce invece che la conoscenza è soggettiva e se molti scienziati sono d’accordo diventa intersoggettiva, mai oggettiva. La scienza evolve, è sempre una costruzione umana. Anche in economia le risorse sociali e psichiche delle persone sono essenziali. La gente depressa ha meno energia; se è socialmente apprezzata ha più energia di chi deve lottare contro i pregiudizi. I processi sociali, ad esempio a livello nazionale, possono ispirare in persone e gruppi iniziative possibili solo con un orientamento comune. La crisi europea risente della mancanza di fiducia di consumatori e investitori nel futuro economico a breve e medio termine. I governi tagliano la spesa e deprimono l’economia, ma dicono ai cittadini di spendere con ottimismo. Una visione integrata rende evidente la contraddizione, che blocca ogni decisione genuinamente economica e razionale.

Keynes ha capito che la gente depressa diventa più ottimista e spende se il governo dà l’esempio; è l’unico soggetto abbastanza grande da creare davvero l’ispirazione per la ripresa. Gli investimenti pubblici e privati sono complementari, ma l’economia ortodossa li considera alternativi. In Olanda gli imprenditori chiedono interventi governativi, ma i politici al potere sono sordi, a conferma della loro evidente chiusura cognitiva.

Keizer dedica un appendice a Adam Smith (The History of Astronomy 1756, The Theory of Moral Sentiments 1759, The Wealth of Nations 1776). Smith considera l’immaginazione umana importante nei processi cognitivi e sviluppa l’idea che ogni persona incarna norme e valori della propria società ricavandone dei criteri di azione, che evolvono perché la capacità di provare simpatia produce senza sosta sentimenti e risentimenti morali. La virtù più importante è la padronanza di sé, fonte della prudenza, beneficienza e giustizia; ma la saggezza delle persone virtuose può essere inferiore o superiore. Le prima è delle persone comuni che curano la propria salute, fortuna e reputazione di meritare fiducia perché non sono avide, corrotte, egoiste. Dietro questa virtuosa gente ordinaria ci sono grandi leader, che vogliono e sanno usare i loro talenti a servizio dell’interesse generale.

L’economia neoclassica rielaborò l’idea di Smith riducendo le persone solo ad agenti economici, senza legami sociali, perfettamente razionali, senza psicologia. Questa strategia di ricerca si chiama astrazione dal contesto e ignora la realtà della forte interconnessione tra fattori economici, sociali e psicologici, che Smith insegna si devono integrare teoricamente per capire l’economia. Il suo primo passo ci impegna a sviluppare un approccio multidisciplinare. Ma dopo la seconda guerra mondiale l’economia ortodossa ha fatto il contrario, perciò i suoi fallimenti non devono sorprendere.

L’ottimismo di Smith sul funzionamento del libero mercato nasce dall’idea che si è naturalmente virtuosi e si ha la saggezza quantomeno inferiore di badare a sé senza nuocere agli altri. La crisi finanziaria del 2008 mostra che non è così sempre e dovunque. «Il pensiero dipende interamente dal ventre, ma non è detto che chi ha il cibo migliore sia il miglior pensatore», scriveva oltre due secoli fa Voltaire a d’Alembert. Niente di nuovo sotto il sole, solo che oggi il pensiero è globale. E «il mondo è rotondo e il luogo che può sembrare la fine, può anche essere l’inizio», ha detto Ivy Baker Priest dal suo punto di osservazione alla testa del Tesoro USA con il presidente Eisenhower.

 

Giuseppe Gario



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