22 luglio 2015

PER UNA STORIA DEI SINDACI MILANESI


La campagna elettorale per le comunali milanesi è iniziata. Non solo quella per il sindaco come si legge ovunque ma anche quella per il consiglio comunale e i consigli di zona. Anzi mentre Fiano and co. almeno formalmente si trattengono dal lanciare iniziative, gli aspiranti consiglieri sono già partiti. Me ne sono accorto quando, giorni fa, Elena Buscemi mi ha mandato una email (che il mio server ha rigorosamente inserito nella cartella “promozioni”) invitandomi ad andare sul sito, ben fatto, corrimilanocorri.it. Come lei tanti altri: singoli, gruppi, liste, associazioni, partitini hanno cominciato a ritessere amicizie, a partecipare a iniziative e a promuoverne, ad aprire siti, a scrivere etc.

Fanno benissimo. La campagna elettorale non è solo primarie e grandi leader ma è un complesso e articolato formicaio. Per parte mia mi è venuto in mente che sarebbe utile rileggere qualche pagina del passato. Così senza impegno con ArcipelagoMilano abbiamo deciso di fare una carrellata sulle elezioni del passato. Nessuna logica cronologica o ambizione storica, semplicemente qualche notarella da leggere sotto l’ombrellone. Partiamo dal sindaco dell’Expo.

Le elezioni del 1905  – Le elezioni comunali si svolgono dopo la sconfitta politica dei socialisti con lo sciopero del 1904 e la rottura tra socialisti e radicali che avvenne a livello nazionale allorché Giolitti sciolse le camere dopo lo sciopero generale. Radicali e socialisti non riuscirono a Milano a fare liste comuni, e i moderati ne profittarono per aprirsi ai cattolici.

Alle successive elezioni amministrative del gennaio 1905, stravinsero i moderati: la maggioranza fu costituta da 45 liberali e da 18 cattolici. Essa rappresentava una novità all’interno dello stesso partito liberale, che aveva lasciato in secondo piano i vecchi amministratori responsabili del ‘98. I quali per di più erano giudicati, per il loro radicato anti-industrialismo, incapaci di sentire i tempi nuovi. A guidare la città, che ormai si avviva a diventare grande città industriale, dovevano stare figure dotate di competenza tecnica e al tempo stesso capaci di mantenere l’ordine non con  semplici misure repressive.

10marossi28FBLa scelta cadde su Ettore Ponti, industriale della seta, studioso di sociologia, disposto a riconoscere la legittimità e persino l’utilità dei sindacati nel lavoro industriale. La minoranza era costituita da radicali, i quali avevano rotto l’alleanza con i socialisti, e si erano ricollocati al centro. Figure di primo piano come Majno, Filippetti e Caldara non furono eletti ma neppure i democratici troppo compromessi con l’alleanza socialista, come Barinetti, Mangiagalli, il repubblicano Chiesa. La lista d’opposizione era infatti formata esclusivamente dai radicali: l’intervento della Federazione esercenti aveva voluto punire i socialisti e i repubblicani, rei di avere promosso un programma di costruzione di case popolari!

Il discorso di Ponti possedeva ben altra statura rispetto a quelli dei moderati degli anni novanta, fermi a una sorta di quieto vivere contabile e alla chiusura miope di fronte agli eventi della “modernità”. La parola “modernità” invece ricorreva in senso positivo numerose volte nel discorso di Ponti: “il progressivo aumento della popolazione della nostra città, l’estendersi e intensificarsi della sua attività economica, le nuove e multiforme esigenze della sua vita, tanto più gagliarda e tanto più complessa che in passato, hanno posto in chiaro, segnatamente in questi ultimi anni, due ordini di necessità; riguadagnare il tempo perduto, preparare l’avvenire.

Riguadagnare il tempo perduto: perché, incominciando dalla penuria dei locali in cui si trovano sede gli uffici municipali e passando al modo inadeguato con cui funzionano alcuni servizi già esistenti, all’urgenza di procurarne altri all’opportunità d’affittare alcuni lavori, tutto cospira a rendere palese che una stridente antitesi si è venuta via e quasi inavvertitamente determinando fra i limiti a cui finora si è dovuto restringere l’attività municipale e il campo in cui dovrebbe svolgersi profondamente e argutamente innovato.

Preparare l’avvenire: perché l’accelerato sviluppo di tutte le manifestazioni della vita civile, l’incalzante elaterio edilizio e la più importate missione che la nostra città è chiamata ad assolvere nei rapporti dell’economia internazionale, e di quella italiana, anche per effetto dell’imminente apertura del Sempione e di nove progettate comunicazioni, ogni cosa induce a presumere che i singoli problemi, primo fra tutto quello ferroviario, non possono ricevere una soddisfacente e sana soluzione se non mediante la loro ordinazione a un unico, integrale disegno, sia pure da attuarsi in un congruo lasso di tempo. Anche in omaggio alle moderne tendenze, noi non vogliamo sottrarci all’impulso che spinge i grandi comuni, così come si è verificato per lo Stato, a scambiare l’ufficio di pura difesa della vita e degli averi dei cittadini con quello essenzialmente dinamico di un più intenso e diffuso miglioramento delle condizioni morali ed economiche di tutti, accrescendo e perfezionando i mezzi dell’azione propria”.

Grandi progetti che chiedevano un impegno di spesa non indifferente. Nell’area acquista dal Comune per quasi un milione e mezzo di metri quadrati era prevista la costruzione di case e di relativi impianti di fognatura. V’era in campo il progetto di creare un giardino a Porta Lodovica. Anche le ferrovie furono ristrutturate. Dalla vecchia stazione di smistamento al Sempione ci si trasferì a Lambrate, mentre si decise di abbattere la vecchia stazione centrale e di costruirne una nuova. Fu acquista un’area per un nuovo mercato, nella zona di Porta Vittoria, mentre si ampliò  il parco macchine dei tram. Si proseguì nella costruzione di case popolari in via Ripamonti e si costruirono nuove scuole. Nei mesi successivi si addivenne anche all’acquisto di energia elettrica in alta Valtellina, il che richiese la costruzione di una grandiosa centrale. Si decise infine la sistemazione del centro storico, grazie a una collaborazione con la Banca commerciale e con Banca d’Italia.

La minoranza radicale criticò solo alcuni punti marginali, ma sembrava invero piuttosto benevolente, annunciando addirittura di astenersi nel voto del bilancio. Neppure Turati, sia pure esterno del Consiglio, sembrò opporsi con troppo vigore: “mi chiedo solo se alla preoccupazione di rapidamente migliorare la parte centrale, doviziosa di Milano corrisponda nella giunta un altrettanto zelo, per le opere più urgenti nei quartieri più eccentrici e più popolari. Non mi pare. Eppure la Milano sconosciuta ha almeno eguale diritto all’attenzione dell’amministrazione comunale quanto la Milano del centro. Occorrono spazi verdi, occorrono case operaie”. La simpatia che la persona di Ponti, più che la sua giunta, riscuoteva presso la minoranza inquietava la parte più conservatrice dei liberali, capeggiati in Consiglio da Emanuele Greppi. Assai misteriosamente, questi si dimise il 9 luglio dall’assessorato, per dar voce a chi pensava che si dovesse togliere il sussidio alla Camera del Lavoro, e dovesse utilizzare meno i soldi del Comune per le case operaie.

Con la giunta Ponti si arrivò anche all’approvazione del nuovo piano Regolatore e viene poi a risoluzione l’annosa questione dell’energia elettrica e dei rapporti con la Edison. Nel giugno 1905 l’ingegner Gonzales iniziò la costruzione della nuova centrale a vapore di Piazza Trento: un anno dopo la piccola città elettrica municipale di 11.000 metri quadrati di Piazza Trento era terminata.

Nel 1907 la crisi aveva colpito l’economia milanese, mentre il Comune avviava la politica dei prestiti. Nell’ottobre dello stesso anno, un nuovo sciopero generale investiva Milano, a cui la giunta aveva reagito non con i toni isterici con cui i liberali, nel 1904, avevano rimproverato Mussi. “Reciproca concordia”, aveva detto a quel tempo Ponti essere la funzione di una giunta, aggiungendo di essere “il sindaco di tutti”, il che in quel contesto significava che Ponti abbandonava il programma d’oltranzismo e di egoismo di classe della destra liberale (maggioritario però tra i moderati milanesi), per seguire le vie a suo tempo intraprese da Mussi il sindaco radicale.

Che cosa doveva essere il “Comune moderno”? Un elemento di “ordine”, quale organo di repressione, come proponevano i conservatori? Tutt’altra, per Ponti il Comune moderno “deve essere soprattutto un disinvolto e oculato amministratore, poco importa se esso possieda le case o i titoli equivalenti […]. Il novo istituto non mira già a soverchiare l’iniziativa privata, ma a regolarla, con calmiere automatico di una limitata coerenza e con bella esemplarità, nonché ad aiutarla con eventuali sovvenzioni o in altri metodi”. Ponti criticava poi gli industriali milanesi che dovevano rifiutarsi di contribuire alla fuoriuscita dalla crisi.

Con Ponti si affronta una grande riforma: quella dell’imposta di famiglia. La proposta di introdurre quella che era sempre stata la bestia nera dei liberali, venne proprio dal sindaco. A quel punto, l’opposizione conservatrice interna ai liberali, silenziosa fino a quel momento, apparve alla luce del sole. Fu Emanuele Greppi, già dimessosi dalla Giunta due anni prima, ad affermare di essere contrario,  perché i ricchi milanesi non erano abbastanza ricchi … . Anche i socialisti erano contrari, perché la tassa sembrava tropo morbida, e del resto, secondo Alessandro Schiavi la giunta era esclusivamente una “Giunta proprietaria” perché solo di questi faceva gli interessi. In un discorso di sfida, Cesare Sarfatti, socialista, metteva in luce le divisioni della maggioranza, che tuttavia, continuava Sarfatti, avrebbe dovuto votare tale legge pena far cadere il sindaco. Alla fine, la proposta passò con 47 voti favorevoli e solo quattro astensioni (tra cui Greppi).

Solo che Ponti aveva dovuto combattere contro la sua stessa maggioranza, e si direbbe contro gli stessi sentimenti e passioni di quella borghesia milanese, per la quale, come aveva detto Schiavi, un Comune doveva avere funzione di “tutela proprietaria”.

Il conservatorismo di questa borghesia non poteva tollerare il conservatorismo democratico di un Ponti, il quale, come ebbe a dire di lui Caldara, in occasione della morte avventa nel 1919, “diede impulso a iniziative audaci, attivò ogni ramo della vita comunale, si come della coltura polare e dell’alta cultura, e si conciliò consensi al di fuori del proprio partito. […] Mai uomo della borghesia ha messo così a repentaglio nella coscienza di noi socialisti, che lo avviciniamo ogni giorno, il principio della lotta di classe”.

Come cadde la giunta Ponti? Su un fatto banale, almeno formalmente. Il radicale Giorgio Sinigaglia, direttore della Pinacoteca di Brera, era intervenuto in Consiglio per illustrare un documento da lui scoperto, in cui erano citati un buon numero di nobili milanesi che nel 1853, in pieno Risorgimento, avevano manifestato il loro appoggio all’Imperatore d’Austria per uno scampato attentato. Il documento non era inedito, e poi tutti ricordavano e sapevano che larga parte della nobiltà milanese non aveva aderito che all’ultimo momento all’unificazione. Solo che i nomi citati da Sinigaglia erano quelli di Ponti, Greppi e Sormani, vale a dire gli avi degli attuali leader dei liberali milanesi.

Ponti s’indignò oltre misura, accusando il vecchio Sinigaglia di avere offeso le memorie del padre. Invece di sfidarlo a duello, come usava, Ponti diede le dimissioni da sindaco. Il 29 aprile 1909 queste dimissioni erano formalizzate, con motivazioni attinenti alla salute e alla caduta del “cavalleresco rispetto” tra le parti politiche. A dire il vero, le allusioni di Sinigaglia non erano cosi pesanti, ed è lecito pensare che Ponti avesse colto al balzo tale occasione per lasciare un incarico ormai troppo impegnativo. Il suo grande momento di fulgore, Ponti l’aveva vissuto nell’aprile 1906, quando accolse il re e la regina per l’inaugurazione dell’Esposizione, forse allora come oggi il dopo Expo fa paura.

 

Walter Marossi



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