6 maggio 2015

25 APRILE, LA SFILATA, LE CRONACHE MEDIATICHE E L’OTTUSITÀ INARRESTABILE


Settant’anni dopo, il 25 Aprile è stato a Milano una giornata di festa, qualcosa di straordinario e chissà se si potrà ripetere (qualcosa – ma questo è un sentimento del tutto personale e probabilmente arbitrario – che dava più senso ai sei mesi dell’Expo). Cento, centocinquantamila persone che sfilano potrebbero rappresentare un’idea meravigliosa oltre che un fiume, l’idea di una memoria che comunque resiste e che può esprimere un futuro, di valori che resistono, di una speranza condivisa. Quel fiume di persone mi aveva ricordato un altro appassionato 25 Aprile, stesso cielo grigio diventato presto di pioggia interminabile. Allora Berlusconi vincitore stava trascinando con sé al governo i neofascisti di Alleanza nazionale e l’impressione di sdegno era forte: si subiva quell’atto, legittimo peraltro, come un oltraggio alla Resistenza e per molti scendere in piazza rappresentava un dovere e significava respingerlo.

11pivetta17FBL’ultimo 25 Aprile non doveva temere Berlusconi o eventuali rivincite neofasciste. Avrebbe potuto però temere la miseria della cultura (pure dei nuovi governanti), di un costume diffuso, nel mito del “cambiamento”, nel ricatto di una presunta modernità che taglia i ponti con il passato, eco di uno smarrimento collettivo, di un disorientamento, dell’uso improprio di una data, in un paese, che sembra nella sua generalità aver scordato il rapporto con la sua storia, ma anche il rispetto e le regole della politica.

È stato un grande corteo di giovani e meno giovani, con i sindacati da tutta Italia, con i partiti, con una schiera di piccole formazioni politiche, della cui esistenza o sopravvivenza sarebbe difficile trovar traccia altrove, molto rumorose in strada, più gli “alternativi”, i più appariscenti grazie ai loro camion che distribuivano “Bella ciao” ad altissimo volume per lo più nella versione rock dei Modena City Ramblers, se non sbaglio. Per la prima volta mi è parso di non vedere sotto qualche striscione un leader nazionale di un grande partito, forse solo perché non esiste più un “grande partito” o forse perché non esistono più leader nazionali. Renzi aveva scelto altre strade e se fosse venuto a Milano avrebbe dovuto sopportare i fischi dei suoi oppositori: si potrebbe dire fischi di una sinistra nei confronti di un’altra sinistra (accogliendo per comodità e rapidità l’ipotesi che esista la sinistra di Renzi).

Il corteo lo si sarebbe potuto vivere come la rappresentazione materiale di una sinistra divisa accanto a una sinistra marginale, reduce da chissà quali visioni utopistiche, condannata all’inutilità. Non saprei dire se patologica nella sua cronicità. Naturalmente da queste parti, divise e diverse, sono piovuti gli insulti, prevedibili, nei confronti del Pd “governativo” ma anche, come si temeva, nei confronti della “Brigata ebraica”, in questo caso con una intollerabile dimenticanza e con una singolare contraffazione della storia e dell’attualità, come se gli ebrei scampati alla deportazione nei lager che combatterono settant’anni fa da partigiani contro i nazifascisti potessero rappresentare oggi lo stato d’Israele, che calpesta i diritti dei palestinesi.

Devo riconoscere che quelle bandiere palestinesi agitate minacciosamente contro le bandiere della Brigata ebraica mi hanno rattristato ben più di quanto mi potessero impressionare gli insulti al Pd, perché le ho viste sventolare come un simbolo d’insipienza politica là dove si poteva immaginare la possibilità di un’alleanza nel segno della giustizia, della democrazia, della pace e di una vicenda comune, e avrei fatto il possibile che questa si realizzasse, perché le bandiere della Brigata ebraica sventolassero insieme con quelle palestinesi. Mi hanno rattristato perché vi ho visto il persistere di un pregiudizio e il ripetersi di un’ignoranza, rispetto alla Brigata ebraica, rispetto ai nomi di Mauthausen o di Auschwitz, rispetto alla stessa nostra storia (quando sento pronunciare le parole “fascista” o “nazista” avverto spesso la banalizzazione di quelle tragedie che furono fascismo e nazismo).

Mi hanno rattristato perché immaginavo quello che sarebbe successo nel giro di pochi minuti e di poche ore: che i siti d’informazione (vedi il Corriere della sera) avrebbero immediatamente titolato “aggressione alla Brigata ebraica” e che il titolo si sarebbe ripetuto nella versione cartacea, che gli schiamazzi di quattro imbecilli avrebbero dato una mano a occultare il senso di una manifestazione e di una data, secondo una rituale prassi di distorsione giornalistica (come se gli altri centocinquantamila non fossero esistiti) .

In un caso e nell’altro (i fischi al Pd), nelle contraddizioni di quel corteo, nelle interpretazioni che ne avrebbe dato la stampa, mi è sembrato di scorgere nel giorno della festa più grande l’ombra dell’incomprensione, come se a settant’anni dalla Liberazione ancora non se ne volesse riconoscere il valore esemplare unico, come se fossero tornati i tempi in cui un ministro democristiano della pubblica istruzione potesse emanare un circolare in cui si raccomandava a direttori didattici e ai presidi di celebrare il 25 aprile come data di nascita di Guglielmo Marconi o i tempi in cui, complici Berlusconi, i suoi alleati e qualche giornalista pessimo storico, si doveva sentire in tv discettare di “sangue dei vinti” e di revisionismo storico. Perché valore esemplare unico? Perché in quella data si riassume una vicenda che è luogo di svolta nella storia nazionale, una vicenda che è fondamento della Costituzione e della Repubblica.

In Francia ci fu la Rivoluzione, in Italia furono i partigiani che si batterono e vinsero perché princìpi fondamentali di democrazia, di libertà, di giustizia sociale, di eguaglianza, dopo il fascismo, dopo la monarchia, diventassero certezze nella Costituzione e fondamento del nuovo stato repubblicano. Forse questa è la “storia” che si dovrebbe ricordare, lasciando certa polemica. La Resistenza è stata un momento di unità, tra uomini lontani per ideologia, non solo per far meglio la guerra ai fascisti e ai nazisti, ma soprattutto per un orizzonte alto dell’Italia.

Oreste Pivetta



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