1 aprile 2015

CITYLIFE E VIA SENOFONTE: TANTE NUOVE CASE SENZA CITTÀ


Sorprendono, non c’è dubbio, le nuove case di via Senofonte, quelle di CityLife. Colpisce il loro biancore che ti aspetteresti forse in Costa Azzurra, di certo non a Milano. Colpiscono l’irrequietezza delle forme e la lucentezza dei materiali, specie se passi di lì in una di quelle mattine in cui il vento ha ripulito l’aria e la luce è più cristallina che mai. Colpisce la loro baldanza, tipica di quell’età in cui cambiare il mondo sembra facile o almeno possibile. Ma soprattutto colpiscono la sfacciataggine di un’opulenza ostentata, di un linguaggio architettonico sopra le righe, dell’incredibile senso di spaesamento che sanno provocare. L’effetto che fanno è lo stesso che Berengo Gardin ha saputo cogliere magistralmente fotografando le navi da crociera che entrano fin nel cuore di Venezia: enormi e abbaglianti ammassi ferrosi che sfilano a due passi da mirabili, misurati e fragili monumenti, incapaci di qualsiasi difesa come certi bambini che non si aspettano la violenza dei più grandi.

riboldazzi13FBEcco, avvicinandosi a questo nuovo complesso residenziale sorto sull’area dell’ex Fiera di Milano – 225 appartamenti per un totale di oltre 37mila metri quadrati (fonte: Milano che cambia, Ordine Architetti PPC di Milano) – provi lo stesso eccitato stupore e al contempo lo stesso scoramento perché è abbastanza chiaro che, così come probabilmente i veneziani, anche i milanesi «purtroppo ci stanno facendo l’abitudine [… e forse questi] mostri hanno preso il sopravvento anche nell’immaginario» collettivo dei cittadini di questa città (G. Berengo Gardin, intervista di M. Smargiassi, La Repubblica, 8 giugno 2013). D’altra parte Milano ha tutta una storia di architetture fuori luogo e fuori scala a cui poi ha fatto il callo e si è perfino affezionata. Basta provare a immaginare a come certi edifici simbolo della modernità novecentesca – per esempio, l’altrettanto bianco e mastodontico palazzo Ina in Corso Sempione o la coeva Torre Velasca – saranno apparsi al momento della loro realizzazione nel secondo dopoguerra e basta pensare a come questi stessi edifici oggi ci appaiano quasi domestici e siano celebrati per le loro qualità architettoniche.

Dunque, se l’obiettivo era quello di assumere un atteggiamento provocatorio per suscitare attenzione e interesse, d’accordo, diciamo pure che è stato raggiunto. Se era quello di parlare la lingua di quella cultura architettonica internazionale veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, va bene, diciamo che è stato raggiunto anche questo. Se invece lo scopo era quello di dare corpo a un’edilizia residenziale radicalmente diversa da quella prodotta a Milano nella seconda metà del novecento – quella che caratterizza gran parte dei tessuti urbani di questa città che il più delle volte tessuti non sono –, forse allora ancora non ci siamo. Certo tutto è arrotondato, inclinato, distorto, “stretchato” – come usano dire i grafici informatici con un brutto neologismo che sta a significare allungato, stirato –. Lo sono le finestre, i balconi, gli ingressi e volumetrie di queste nuove case in via Senofonte. Si tratta tuttavia di una ricerca che pare stare alla superficie delle cose.

È chiaro che ci sarà sempre chi, per mille ragioni qui insondabili e tuttavia legittime – sensibilità, cultura, gusto -, potrà preferire il rigore funzionalista e chi lo troverà di una noia mortale; chi apprezzerà l’ansiogena ricerca di fluidità e movimento di queste nuove case e chi le troverà – anch’esse e soprattutto dopo un po’ di tempo – altrettanto ripetitive e scontate. Il problema, semmai, sta nella capacità dell’architettura – di un’architettura che voglia dirsi davvero innovativa e al tempo stesso profondamente radicata nella cultura della città europea – di tornare a praticare quella che, nel titolo di un bel libro di qualche anno fa, è stata giustamente definita una “difficile arte” che è quella di “fare città”, specialmente oggi, “nell’era della metropoli” (G. Consonni, Maggioli 2008). Sta cioè nel modo con cui queste nuove case dovrebbero saper interpretare l’identità di Milano e proseguirne il racconto, nella maniera con cui si rapportano tra loro e soprattutto con ciò che gli sta intorno. Soprattutto sta nella capacità – tipica di quella tradizione premoderna sciaguratamente trascurata in particolare nel secondo dopoguerra – di definire e arricchire di senso e bellezza lo spazio urbano. Spazio che – come sosteneva Bruno Zevi nel suo celeberrimo Saper vedere l’urbanistica (Einaudi, 1960) – è il vero “protagonista […] dell’organismo urbano”.

Via Senofonte – che è quella alla destra del vecchio ingresso principale della Fiera in Piazzale Giulio Cesare – era probabilmente qualcosa di formalmente irrisolto e sbilanciato così come lo sono in genere tutte quelle strade a ridosso di qualche grande area recintata e inaccessibile. Se a ciò si aggiunge una cortina composta da una sequenza di architetture senza granché di memorabile dobbiamo riconoscere che, a parte qualche eccezione, l’immediato contesto forse non offriva spunti progettuali esaltanti. Detto questo, le nuove corpulente case realizzate sull’area di City Life pare non facciano alcuno sforzo per rapportarsi a questo tipo di paesaggio: che non vuol dire scimmiottarne le sembianze ma praticare un disegno che attribuisca armonia spaziale là dove questa non c’è.

L’altezza dei nuovi edifici (da cinque a tredici piani), la loro sintassi architettonica, l’impermeabilità dei piani terra e perfino la recinzione dura e ostile non lasciano spazio ad alcun tipo di dialogo formale e funzionale. Il loro isolamento nel verde (rigorosamente privato), il modo di disporsi rispetto alla strada, la mano unica nel disegno dei prospetti lungo tutta la via e la monofunzionalità dell’intero isolato – ammesso che di isolato si possa parlare – lasciano trasparire un sostanziale perpetuarsi di approcci progettuali stantii che sarebbe davvero il caso di lasciarci alle spalle. Approcci tutt’altro che innovativi che vanno nella direzione opposta a quella di creare strade urbane e vitali. Se a ciò si aggiunge che tutte queste case si rivolgono a ceti sociali quantomeno privilegiati in un momento in cui il disagio abitativo a Milano non può certo dirsi assopito, vien da chiedersi a quale immaginario urbano la nostra società stia guardando, quale tipo di regia pubblica sia stata condotta nell’interesse del bene comune e se questo intervento non comunichi un sottile disprezzo verso la vita che scorre a due passi da lì, dove c’è la città.

 

Renzo Riboldazzi



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