3 dicembre 2014

RISCALDAMENTO: LA TEMPERATURA DEGLI STOLTI


Sino a oggi l’italiano standard non ha mai considerato Enel ed Eni dei fornitori esosi, tanto che le bollette, per quanto possano risultare salate, difficilmente sollevano la sua indignazione, come invece accade per il bottegaio sotto casa quando viene paragonato al centro commerciale, lontano molti chilometri. Per motivi che solo un antropologo potrebbe spiegare l’energia non viene considerata un bene di consumo, al pari del pane o del detersivo, e i cittadini non si pongono seriamente problemi se e come sarebbe possibile ridurne il costo.

07santagostino42FBSe ad esempio una persona qualsiasi s’interrogasse sul perché per avere 20° in un ambiente riscaldato l’acqua dei termosifoni del suo impianto debba circolare a 65° (con un costoso differenziale di 45°), comprenderebbe facilmente che la ragione sta nella sua stessa abitazione. Infatti non solo la ridotta massa radiante del calorifero riesce a cedere caldo all’ambiente soltanto se la temperatura in esso contenuta è sufficientemente alta, ma la sua casa non é costruita per risparmiare energia.

Nei paesi del Nord Europa, dove il freddo è più intenso e prolungato, da molti decenni la progettazione edilizia impiega masse radianti assai più estese (pannelli a pavimento) che consentono di impiegare temperature del fluido di riscaldamento di gran lunga inferiori (35-40°) e, come naturale conseguenza di questo differenziale assai più contenuto (15-20°), di ottenere economie di esercizio impensabili per il nostro attuale standard tecnologico medio. Ciò accade con ogni tipo di tecnologia di riscaldamento: la tradizionale caldaia a condensazione, oppure le tecnologie alternative in pompa di calore (tipicamente la geotermia da sonde) che amplificano il risparmio energetico, pur con un costo di impianto superiore. La stessa attenzione viene posta ai materiali componenti l’involucro della casa per minimizzare quei costi energetici a cui noi non guardiamo, ostentando un distacco signorile che avvantaggia i monopoli energetici.

Questa notazione ha però un riscontro ancor più grave quando si passa dalle scelte del singolo, che hanno come abbiamo visto un retroterra antropologico, a coloro che fanno scelte pubbliche, i quali un po’ di conti dovrebbero farli dimostrando di avere a cuore il bene comune. Ebbene così non sembrerebbe, perché le loro scelte si limitano a considerare l’alternativa tra il riscaldamento convenzionale e il teleriscaldamento, con una preferenza attribuita a quest’ultimo per l’innegabile vantaggio della concentrazione nella produzione di energia termica, oltre che di controllo delle emissioni.

Nei nostri sistemi di teleriscaldamento sin qui sperimentati, il caldo viene distribuito in alta temperatura nell’ipotesi, l’unica evidentemente ritenuta plausibile, di doverlo comunque fornire secondo le esigenze dell’utenza finale, indipendentemente dal suo grado di efficienza. D’altra parte dal camino di un termovalorizzatore l’acqua esce a temperature ben superiori ai 100°, tanto che viene prima impiegata per produrre energia elettrica sfruttando la forza del vapore e solo quando arriva attorno al punto di ebollizione viene distribuita in rete. Ciò permette pertanto di effettuare la distribuzione all’utenza finale in modo da consentire a questa di scambiare l’energia termica richiesta in forma diretta, e dunque di alimentare impianti di tipo tradizionale senza alcuna necessità di integrazione.

Non potendo o non volendo modificare queste condizioni di scambio diretto, non vi sono al momento alternative nel distribuire in rete l’acqua di riscaldamento a temperature prossime al punto di ebollizione e ciò comporta scelte tecnologiche sui materiali componenti la rete assai gravose e, quel che più conta, una serie di costi elevati proprio per mantenere in temperatura la rete stessa, esposta così a un grande costo di esercizio che riduce fortemente i vantaggi ottenuti con le economie di scala derivanti dalla concentrazione della produzione. La stessa quantità di energia potrebbe, ad esempio, sostentare una massa d’acqua doppia con temperatura di 65° ma, a questo punto, pur essendo la gestione della rete assolutamente più efficiente e meno dispersiva, non sarebbe più in grado di alimentare direttamente, per tutta la stagione, le utenze finali.

E qui ritorniamo alla nostra sindrome che non demonizza mai e per nessuna ragione i consumi energetici, anche quando questi rappresentano il costo maggiore nella conduzione di un edificio (in particolare nel Nord Italia). L’aspetto più sconcertante è l’insensibilità individuale e collettiva verso il problema principale dell’Italia, ovvero la sua dipendenza energetica da fonti esterne e in particolare, da fonti non rinnovabili fossili, il cui consumo smodato a sua volta genera problemi di natura ecologica, accanto a quelli finanziari da cui siamo già afflitti. Questa insensibilità si traduce nell’ incapacità pubblica di indicare una vera direzione al risparmio energetico, tramite la riqualificazione del patrimonio edilizio e di quello impiantistico che lo sostiene, e, di conseguenza, anche al miglioramento della salute dell’ambiente.

Ci chiediamo però: vi è un’alternativa possibile, mantenendo la produzione accentrata e la distribuzione in rete? La risposta è positiva: per risparmiare e riacquistare l’autonomia energetica perduta, occorre consumare la minor energia possibile (quindi ristrutturare il patrimonio edilizio e le relative masse radianti) e, contestualmente, disperderne il meno possibile con la rete (quindi cercare quindi di distribuire con temperature inferiori alle attuali), giungendo all’optimum energetico che è il cosiddetto ‘free heating’ ovvero lo scambio in bassa temperatura fra rete e utenza finale.

In questa prospettiva acquistano uno spazio preponderante le tecnologie in pompa di calore e, per quel che riguarda la Pianura Padana assisa quasi a sua insaputa su di un gigantesco giacimento di petrolio rappresentato dall’acqua di falda, quelle che la utilizzano in geotermia diretta: i centri commerciali, i grossi insediamenti privati e le strutture pubbliche di nuova costruzione impiegano ormai prevalentemente questa tecnologia e ciò la dice lunga sulla convenienza economica.

Se si considera che la produzione geotermica ha un’efficienza più che doppia rispetto alla produzione derivante da combustione (ciò significa che con una caldaia tradizionale io uso 1 kW energetico per produrre un kW termico, mentre con una pompa di calore questo rapporto arriva a raddoppiare o triplicare grazie all’estrazione della temperatura contenuta nell’acqua di falda), la pompa di calore potrebbe diventare la fonte principale del teleriscaldamento, mentre la produzione in alta temperatura ne arriverebbe a integrare soltanto la quantità necessaria ad arrivare ad alimentare il circuito a 60-65°. Quello che manca nei singoli edifici (se manca) verrà poi integrato con un fonte locale.

A questo punto si aprirebbero scenari ancor più affascinanti: il passo successivo sarebbe di affiancare un circuito di tele raffrescamento che fornisca durante l’anno il freddo richiesto dalle utenze commerciali (banchi frigo) e nella stagione estiva il freddo per condizionare gli ambienti, potendo contare su macchine con efficienza più che doppia rispetto ai condizionatori oggi impiegati. I due circuiti paralleli, sfruttando l’uno lo scarto del fluido prodotto dall’altro, generano, nei limiti imposti dal bilanciamento delle due produzioni, un pendolo (quasi) perfetto che, con poca acqua prelevata dal sottosuolo, s’inventa tutta l’energia termica (calda e fredda) necessaria.

La particolare morfologia della Pianura Padana, e il livello di falda molto prossimo alla superficie nel milanese, rendono ulteriormente economico il ricorso all’acqua sotterranea come combustibile a costo (quasi) zero: se la politica è l’arte di governo della “polis” invece di incartarsi in dibattiti sui massimi sistemi, forse sarebbe opportuno concentrarsi sulle vere emergenze e tentare, con intelligenza e coraggio, di risolverle. Abbiamo la fortuna (per così dire) che in questi anni il costo dell’energia è diventato talmente improbo da imporre azioni decise per ridimensionarne l’impatto sull’economia da rendere pressoché naturale il ricorso a tecnologie più ecologiche immediatamente disponibili in forma illimitata.

Lo scambio tra risorse interne pulite, energetiche e tecniche, contro fonti esterne inquinanti, potrebbe in un futuro prossimo mettere la parola fine a una pratica di vero e proprio autolesionismo energetico collettivo.

Giuseppe Santagostino



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