4 giugno 2014

MASSIMO VIGNELLI: IL GRAPHIC DESIGNER PIÙ FAMOSO DEL MONDO


È già stato scritto tutto: nel giro di poche ore dalla sua scomparsa, si sono riempiti i giornali americani innanzitutto che hanno raccontato la loro storia di successi da quando erano stati accolti giovanissimi prima a Chicago poi a New York. Massimo e Lella Vignelli sono stati amati e lo sono tuttora, esaltati per le loro qualità, ammirati per i loro eccessi e la serietà del loro lavoro. Tra le altre cose è stato loro dedicato nel 2010 il “Vignelli Center for Design Studies” grandioso edificio al 73 Lomb Memorial Drive Rochester NY dove convivono un archivio del loro lavoro, una scuola di formazione di graphic design dove s’insegna oltre alla storia la teoria e la critica. Non c’è nient’altro da dire e c’è da essere orgogliosi e non tristi per la perdita di un amico che più di così non avrebbe potuto fare, di un milanese che, con coraggio e incoscienza, aveva lasciato gli uffici di Santa Maria Fulcorina per un piano intero di un grattacielo di New York.

09piva21FBLella Vignelli e io abbiamo costruito la nostra tesi di laurea in un sottotetto di via Revere, dove abitavano appena sposati. In quel sottotetto spesso alle nostre risate si univano quelle di Massimo che con allegria stemperava le tensioni di un lavoro che in poco tempo doveva essere terminato. Quelle risate le abbiamo riesumate più di cinquanta anni dopo nella casa di New York dove, con leggerezza, alla presenza di Lella abbiamo riassunto la nostra vita. “Ho avuto una bella vita, ho fatto tutto quello che desideravo fare e ora mi sto godendo, giorno per giorno, le ultime risorse del mio corpo” e giù una risata con gli occhi che diventavano due fessure. Nessuna paura di morire anche se sapeva che le probabilità di un intervento delicato ma programmato, avrebbe potuto ridurre ulteriormente le sue energie. Bicchiere mezzo pieno sempre.

L’aspetto curioso delle nostre storie che ci univano era legato anche alle nostre mogli che entrambi abbiamo assistito durante le loro malattie. “Non l’avrei mai pensato, mi diceva, che avrei accompagnato Lella a passeggiare a Central Park, e ancora una risata, mancherebbe il tramonto del sole tra gli alberi, tu che ci accompagni col bastone e la scritta, fine, nel campo azzurro-rosso del cielo. Non si può credere ma sarà così.”

Gli eccessi della sua vita non corrispondevano al rigore del suo lavoro nemmeno alla forma e all’equilibrio dei suoi colori. La Roll Roys che per un certo periodo aveva usato con un autista in livrea faceva forse parte di una recita necessaria per acquisire clienti e conservarli. Creava negli altri sogni che lui realizzava. Franco Albini mi raccontava che a un pranzo, ma era ancora un ragazzo, si era presentato a torso nudo e una cravatta rossa annodata al collo! Ragazzate che definiscono però l’interesse per la spettacolarità delle azioni. Lella, d’altro campo, seguiva le bizzarrie e non le ostacolava, rimanendo sobria con un’eleganza, pratica e risoluta. Negli ultimi anni vestivano entrambi sempre di nero con calzoni larghi annodati in vita sormontati da una casacca che facevano parte di un progetto nel campo della moda.

Sempre propositivo, come un pifferaio magico convinceva, trascinava inondando di idee e di progetti la conversazione. Agganciava i clienti con entusiasmo e molti gli perdonavano alcuni atteggiamenti spregiudicati di cui non lasciava traccia nelle realizzazioni dei suoi progetti. Con un grande intuito aveva capito il mondo in cui viveva cogliendo il rigore necessario per arrivare per primo a dare le risposte che da lui tutti si aspettavano. Un uomo del suo tempo dunque a tutto tondo che prima di chiudere aveva riconosciuto a sua moglie un ruolo primario, anzi alla pari, dedicandole un CD con la sua immagine in copertina: una Lella che sembra una regina ritratta con un collier d’argento da cui si libra il collo. Nel cielo di Central Park qualcuno con un aereo ha scritto in bianco la parola FINE che si è dissolta lentamente lasciando il cielo terso.

Antonio Piva



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