14 luglio 2009

EXPO: LA DIFFICILE QUADRATURA DEL CERCHIO


Si avvicina l’ora di quelli che forse a sproposito sono stati chiamati gli “Stati Generali” dell’Expo. E’ troppo presto per fare alcun tipo di considerazione sul successo o sull’utilità dell’operazione. Fidiamoci e crediamo che nel loro colpevole ritardo e nella loro palese arroganza, gli attori coinvolti nell’allestimento di questa manifestazione vogliano confrontarsi con la città e i cittadini su questo tema così dibattuto e controverso e che finalmente si presenti il primo reale tentativo di far capire a tutti noi cosa bolle in pentola.

Non si sa bene chi avrà diritto di dire la sua, di mostrare idee ed alternative ad un programma che tutti conoscono solo per grandi linee: il cartoncino di partecipazione – inviato a pochi – non è chiaro ma, come detto, attendiamo i risultati.

 

Da una parte quindi il CDA dell’Expo e dall’altra i cittadini con il compito di partorire un abbozzo di piano il più possibile condivisibile e condiviso. Si è parlato molto della possibilità di realizzare un’ “Expo diffusa”, ossia di non utilizzare un bene prezioso e limitato come i terreni agricoli a nord di Milano,come prevede il progetto ufficiale, quanto piuttosto scomporre l’evento in “locations” differenti, oggi vuote o non del tutto utilizzate. Un’ottima idea.

 

Da qui tuttavia sorgono una serie di questioni ed interrogativi che coinvolgono anche la storia dello sviluppo morfologico della nostra città. E’ vero, Milano già per due volte è stata sede di esposizioni internazionali ma da allora molte cose sono cambiate: da un lato l’accesso alle informazioni da parte dei visitatori poteva avvenire quasi esclusivamente visitando l’evento, dall’altro la città (quasi un paese rispetto alle dimensioni odierne) aveva a disposizioni grandi spazi liberi periurbani facilmente raggiungibili che ben si adattavano alle esigenze espositive. In un’epoca poi dove la “meraviglia tecnologica del progresso” era una molla capace di coinvolgere l’interesse di migliaia, se non milioni di individui, la città italiana industriale per eccellenza rappresentava allora una forte attrattiva anche per i visitatori stranieri.

 

Si pensi poi al fatto che Milano non è e non è mai stata considerata una “città d’arte”; per una serie di ragioni storiche esclusa dai percorsi dei primi “gran tours” sette-ottocenteschi, le poche vestigia della nostra passata romanità hanno tenuto sempre distanti i turisti d’arte; si aggiunga poi il suo divenire “città industriale”, il clima non esattamente mediterraneo, le grandi demolizioni del XIX secolo, e i bombardamenti della guerra: insomma Milano rappresenta un’anomalia per il turista contemporaneo che fino a pochi anni fa la prendeva in considerazione quasi esclusivamente per lo shopping, polverizzato poi dalla globalizzazione (quanti Empori Armani ci saranno in Cina o in Giappone?) e dalla possibilità di fare qualsiasi tipo di acquisto via internet. Infine possiamo affermare che la pessima gestione dei nostri musei più importanti ha contribuito a consolidare una certa immagine: una città di passaggio, di transito, dove la maggior parte dei turisti sono business-people.

 

Tutto questo per dire che se i turisti paganti effettivamente sceglieranno di passare qualche giorno a Milano per visitare l’Expo, nonostante la carezza dei nostri hotel, bisogna presentare loro un complesso di elementi attrattivi organizzato e coerente.

Se si osserva una carta di Milano e dei suoi immediati dintorni che individua possibili locations sparse per la città, se ne ricava un’immagine simile al groviera: decine e decine dei micrositi sparsi ovunque senza soluzione di continuità tuttavia spesso molto distanti tra loro. Non possiamo pensare che improvvisamente Milano si popoli di migliaia di disgraziati visitatori mentre viaggiano sperduti sulla nostra scalcagnata e sovraffollata rete di trasporti pubblici, in trasferimento dal padiglione del Togo collocato, per esempio, a Piazzale Corvetto, verso l’area espositiva della Francia nei capannoni della Bovisa. Su questo il BIE non ha tutti i torti, l’Expo se non la si vuole realizzata in un unico luogo deve trovare allora un numero sufficiente di spazi contigui all’interno di un percorso definito.

 

Si potrebbe allora immaginare una Expo interamente contenuta nelle aree all’interno delle mura spagnole, dove tra l’altro sorgono anche tutti i nostri musei più importanti: gli spostamenti dei visitatori potrebbero avvenire a piedi in una cornice urbanistica decorosa (o quasi). Tuttavia non disponiamo di spazio sufficiente, e questa ipotesi non è certo facilmente percorribile.

 

La verità è che esiste un’area prossima alla città storica, già servita dai mezzi pubblici e dotata di aree per il parcheggio delle automobili, ed è – ironia della sorte – proprio l’area occupata dalla vecchia fiera ormai demolita. Forse è su quest’area che il CDA dell’Expo potrebbe rivolgere la propria attenzione. I protagonisti di un possibile piano di acquisizione temporanea dell’area (gli stessi per intenderci anche dei terreni di Rho), avrebbero larghi spazi di mediazione. Ma forse questa è solo una idea peregrina, dotata però di un briciolo di buon senso.

Filippo Beltrami Gadola



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