13 luglio 2009

PALAZZO REALE E LA MOSTRA SULLA SCAPIGLIATURA


L’apertura della mostra sulla Scapigliatura, movimento artistico e letterario che aveva avuto i suoi sviluppi in Lombardia nella seconda metà dell’800, mi ha offerto l’occasione di ripercorrere, dopo un pò di tempo che non lo facevo, gli spazi del piano terreno di Palazzo Reale di Milano dedicato alle mostre temporanee.

I due studi di architettura BBPR e Albini, Helg, Piva, si erano occupati congiuntamente di questi stessi spazi nel 1980 dopo aver steso un progetto nel 1977 di tutta la ristrutturazione di Palazzo Reale che avrebbe dovuto diventare Museo d’Arte Contemporanea. Il piano terreno aveva ricuperato, per primo, gran parte di quella nobiltà architettonica che generalmente è il vanto dei luoghi destinati a rappresentare la città con le sue attività di maggior visibilità.

Senza togliere nulla alle scelte museologiche che non metto in discussione perché non fanno parte delle mie competenze, entro nel merito invece sullo stato attuale dello spazio che si presenta ora al peggio delle sue potenzialità.

Gli stessi ambienti che vediamo oggi erano stati predisposti, già allora, per ospitare mostre temporanee, dotati di sistemi espositivi flessibili, impianti di illuminazione, controllo dell’umidità, godevano di un restauro non solo spaziale, ma anche del ricupero di materiali e di finiture adeguate alla importanza della fabbrica. Pavimenti di cotto, intonaci, imbotti delle porte e dei varchi, colori, ricostituivano quel lessico architettonico che contribuisce, generalmente, a creare quelle differenze qualitative che fanno emergere uno spazio per i valori della sua identità. La valorizzazione delle finestre che collegano spazialmente l’interno con l’esterno e viceversa aveva avuto anche lo scopo di introdurre la luce naturale all’interno degli ambienti, luce che non è dannosa, se opportunamente schermata, ma necessaria per valorizzare il cromatismo delle opere pittoriche e per creare ombre, chiari e scuri nelle opere di scultura. Il rapporto tra interno ed esterno fa parte di una ricerca antica che nell’architettura non ha mai cessato di cimentare gli architetti di tutte le epoche che hanno tentato sempre di portare dentro allo spazio le viste delle corti, dei paesaggi urbani e della natura creando prospettive come faceva anche Piermarini che a Milano ha lasciato molte tracce.

La mostra sulla Scapiglatura si articola negli stessi spazi cui ho fatto cenno che nel tempo hanno subito un degrado imbarazzante per le cancellazioni che lo hanno privato della sua veste senza avere avuto in cambio alcunchè se non qualche straccio polveroso.

Gli ambienti hanno perduto le finestre con le viste e la luce, tamponate con pannelli, i pavimenti sono stati rivestiti con una moquette della peggiore qualità commerciale che cambia di poco il colore in ogni stanza e non si raccorda mai nemmeno con il bianco delle pareti che invade profili di ferro, zoccolini, imbotti delle porte senza distinzione.

I lavori di restauro di Palazzo Reale non sono ancora ultimati e già il piano terreno ha perso la sua identità trasformato in un luogo anonimo più simile ad una officina meccanica dove non è così indispensabile la qualità architettonica.

Naturalmente i protagonisti della Scapigliatura ne risentono perché le loro opere, allineate ed equidistanti l’una dall’altra, non suggeriscono riflessioni e tanto meno godono della bellezza di uno spazio tanto misero da rendere poco credibili anche le opere esposte. Le luci uniformi, per concludere, azzerano quelle suggestioni pittoriche che colgono l’attimo del rapimento dell’ispirazione e della creatività.

Sono uscito dalla mostra mortificato: alcuni però erano felici come i prestatori perché avevano rivisto i loro quadri al museo, i galleristi di Milano e provincia che potranno esibire un catalogo con le loro opere pubblicate, i loro clienti che si sono sottoposti ad una coda interminabile sotto il sole di una giornata calda e afosa.

 

A me rimaneva lo sconforto d’aver visto anche la scultura marmorea di un bambino con una mano tesa delle cui dita erano rimasti solo i ferri della struttura.

 

Antonio Piva


 



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