20 novembre 2013

NON SOLO CORSERA. GIORNALISTI, MA QUALI PRIVILEGI?


Nelle ultime settimane tutti abbiamo letto, qualcuno anche firmato, la petizione del Comitato di redazione del Corriere della Sera che coinvolge i cittadini – milanesi e non solo – in difesa della storica sede di via Solferino, a rischio vendita per fronteggiare la crisi di Rcs. E non è certo una notizia che scivola via, questa: nell’opinione pubblica, sui social network, sui media, anche se i risvolti economici dell’operazione non sono chiari per tutti, forse per una precisa volontà. Cogliendo però l’occasione di questa “finestra” per gettare uno sguardo sul mondo del giornalismo e dell’editoria, credo che i motivi per indignarsi vadano ben oltre. Ben oltre la vendita (svendita, speculazione?) di un luogo che pure ha fatto la storia di un quotidiano e di una città.

04poli40FBSenza associarmi a chi accusa di snobismo i giornalisti del Corriere delle Sera, in mobilitazione per la questione che li riguarda da vicino, ritengo però che si dovrebbe compiere tutti un po’ uno sforzo, soprattutto chi conosce il settore, per esperienza diretta o indiretta; uno sforzo per constatare che questa è soltanto la punta dell’iceberg, un segnale visibile in mezzo a tanti segnali non colti. Qualcosa che sta succedendo da anni, lontano dai riflettori. Giusto che si parli di via Solferino, che se ne scriva sulle pagine dei giornali o che ci si confronti in accese discussioni su Facebook. Ma nell’ottica di una completezza di informazione trovo molto meno comprensibile che di altre cose non si parli affatto. Ci sono storie di giornali e giornalisti che passano sotto assoluto silenzio, e fondamentalmente si fatica a costruire una visione d’insieme di un problema comune a così tanti, differenti soggetti. E non aspettiamoci certo che un caso eclatante possa accendere l’attenzione su tutto il resto, perché purtroppo non accadrà.

In Lombardia hanno sede più gruppi editoriali e testate che nel resto d’Italia, e la crisi li sta investendo tutti uno dopo l’altro, in misura più o meno cospicua. Si parla del Corriere della Sera che potrebbe forse, in un futuro comunque non tanto vicino, traslocale con i suoi attuali occupanti; si ignorano invece quasi del tutto – tanto per restare nella stessa famiglia – quei periodici Rcs che, complice il torpore dell’estate milanese, hanno chiuso quest’anno definitivamente i battenti; non si parla delle riviste che hanno abbandonato, probabilmente per sempre, la versione cartacea ripiegando sulla formula del digitale per contenere i costi. Si tende, un po’ ovunque, a fare passare per evoluzione tecnologica e di costume questa virata pressoché integrale verso digitale, che rappresenta in realtà un’altra faccia della crisi.

Accanto ai giornalisti che comunque continueranno a lavorare ce ne sono altri che restano a casa, o che lo sono da tempo. E nel mezzo c’è un limbo, una terra di nessuno, quella dei freelance. A parte le “firme famose”, gli esperti e alcuni professionisti particolarmente capaci, produttivi e ricercati in settori specialistici, accanto a chi ancora conserva collaborazioni di buon livello, la nuova generazione di giornalisti autonomi, a ritenuta d’acconto o partita Iva, è fatta di lavoratori tutt’altro che privilegiati. Sono pubblicisti, professionisti o aspiranti tali, new entry o habitué della carta stampata o del web, (giusto per non estendere il discorso a radio e tv locali), che le collaborazioni le cercano, a volte le trovano e soprattutto le perdono. La richiesta di contributi resta tutto sommato abbastanza aperta, scrivere un articolo e vederlo pubblicato non è poi una velleità inarrivabile.

Di contro, i compensi sono calati negli ultimi dieci-quindici anni con un’inversione di tendenza e un ritmo di decrescita che ha pochi uguali nel mondo del lavoro. I tariffari delle case editrici per le collaborazioni esterne, in particolare per ricerche e stesure di testi, sono imbarazzanti sia per chi li riceve sia per chi li offre. Venti, quindici, addirittura cinque euro lordi per un pezzo o una notizia che, per quanto non richieda capacità giornalistiche da fuoriclasse della scrittura, porta via comunque tempo, energie, e implica a volte anche un investimento economico per spostamenti, telefonate, strumenti di lavoro e altro. In attesa di tempi migliori… Tutto questo passa sotto silenzio, anche da parte dei diretti interessati, un silenzio assordante. In questa situazione, per quanto probabilmente poco risolutivo, diventa quindi più che comprensibile il gesto degli undici freelance che hanno recentemente scritto addirittura una lettera al Papa per denunciare questa condizione che potrebbe definirsi di disconoscimento professionale.

Come si giustifica questo doppio metro di misura nel giudicare le questioni dell’editoria e la sua crisi? I giornalisti o aspiranti tali che accettano compensi così bassi “rovinano il mercato” perché avallano una prassi che dopo che a loro verrà applicata ad altri, come un dato di fatto ormai acquisito. D’altra parte, come dare torto a chi cerca comunque, in qualunque modo possibile, di mettere piede in una redazione, magari anche lavorando quasi gratis (non sarebbe meglio gratis del tutto?). In fondo scrivere è sempre un bel lavoro e, lo si ripete all’infinito, da cosa nasce cosa, a qualcuno è andata bene … Più che altro in passato, però, difficilmente ora. Su questo equivoco, che il lavoro del giornalista sia tanto ambito e, in un futuro sempre più incerto, anche ottimamente retribuito, si è arrivati allo svilimento di una rappresentanza significativa di questa professione: l’immensa categoria del “giornalista medio”.

Di svilimento si tratta, perché pagare così poco un lavoro intellettuale induce inevitabilmente a ridurre l’impegno e a far scadere la qualità, a contrarre il tempo dedicato alla stesura di un testo, ad attingere da Internet senza verifiche minime delle fonti. Perché di fronte a certi compensi, l’unica temporanea scappatoia è puntare sulla quantità, sempre che sia possibile moltiplicare le pubblicazioni a proprio nome per guadagnare di più. Altro aspetto preoccupante è che non sono coinvolti solo i giovani alle prime armi, i praticanti, i neofiti, bensì tantissimi professionisti con decenni di esperienza che per qualsiasi motivo non sono più fissi nelle redazioni.

Mi domando quale sia la soluzione, se un Ordine o una Federazione Nazionale della Stampa non possano considerare questa come priorità assoluta. La difesa dei “compilatori di giornali” (rubo l’espressione ad Antonio Franchini, dal suo libro “L’abusivo” dedicato a Giancarlo Siani) che lavorano con retribuzioni ridicole e da un giorno all’altro possono non venire più “chiamati” a scrivere pezzi. Fatto sta che se qualche anno fa un freelance poteva vivere del proprio lavoro, ora ciò è concesso a pochi di loro. Sarebbe interessante un confronto con le altre professioni, con altri lavoratori autonomi, spesso non per scelta o per idiosincrasia verso la condizione di dipendente, ma per necessità e direzione obbligata: come architetti, consulenti, ricercatori universitari con o senza contratto, avvocati; questi ultimi, soprattutto in alcune regioni italiane, lavorano per anni senza stipendio né rimborso spese negli studi – per “fare esperienza” – anche dopo avere superato l’esame di Stato.

Tornando ai giornalisti, come convincere gli editori ad applicare equi compensi in cambio di un lavoro di cui hanno comunque assoluto bisogno per riempire pagine cartacee o virtuali? Possiamo rimproverare al settore, almeno a una parte di esso, di avere per decenni sprecato risorse, spesso a vantaggio di professionisti supertutelati sotto ogni aspetto. Ma quanto sta succedendo ora è l’esatto opposto e comunque non stanno pagando le stesse persone che hanno usufruito in passato di agevolazioni e vantaggi economici. Sono questi i motivi per cui rimango un po’ scettica di fronte all’appello dei giornalisti del Corriere, pur legittimo e nell’ottica del “bene comune”. Trovo fin troppo facile, per chi ha lanciato la petizione, correre anche sulle note della memoria, smuovere le corde emotive di tutti coloro che identificano il giornalismo milanese con il Corriere della Sera. Mentre intorno i colleghi di altre redazioni, o di nessuna redazione, si dibattono in problemi quotidiani dal valore molto meno simbolico.

 

Eleonora Poli

 

 



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