16 ottobre 2013

IL CRAXIANO RENZI E LA MALEDIZIONE DEL SEGRETARIO PROVINCIALE


So già che sarò accusato di acirologia per questo titolo ma cerco di spiegarmi. I partiti come un organismo vivente tendono sempre alla propria difesa: “Il prevalere della logica di autoconservazione non deriva tanto dall’opportunismo individuale dei dirigenti, ma da meccanismi impersonali del funzionamento dell’organizzazione. Le scelte sono orientate alla tutela dello strumento più che al perseguimento dello scopo per cui l’organizzazione è nata, cioè gli ideali di democrazia e partecipazione.” (Michels)

07marossi35fbAvvenne così per il Psi con l’elezione di Craxi: un partito in crisi d’identità, si affidò all’elemento più innovativo rottamando una classe dirigente che aveva perso le elezioni. La scelta a favore di Craxi si fondava su convinzioni diffuse: 1) necessità di rottamazione del vecchio gruppo dirigente; 2) necessità di recuperare di un elettorato progressista ma moderato; 3) necessità di una riformulazione ideologica del partito, ritorno al riformismo.

Di suo Craxi aggiunse altri obbiettivi: 1) riforma istituzionale in senso presidenzialista; 2) riforma elettorale; 3) riforma del modello organizzativo del partito tradizionale e sua sostituzione con un partito elettorale; 4) riforma del linguaggio dell’immagine e della comunicazione; 5) modernizzazione del paese.

Avviene lo stesso nel Pd con l’elezione di Renzi e i programmi sono quasi fotocopia. Ovviamente vi sono anche sostanziali differenze, in primis come dice l’attuale segretario del Pd, Craxi era un uomo della sinistra storica ancorato alla tradizione mentre Renzi è homus novus al 100% e per Epifani forse neppure di sinistra ma tra similitudini e differenze c’è un aspetto comune che vorrei sottolineare.

Quando Craxi fu eletto non pochi denunciarono “la mutazione biologica” cui veniva sottoposto il Psi con l’elezione del “tedesco”, l’accusa principale (allora feroce) era che si “socialdemocratizzava il Psi”. Per Renzi le accuse sono state anche peggiori. Ma sia uno che l’altro nel breve giro di due consultazioni interne si sono ritrovati con una schiacciante maggioranza. Quella larga maggioranza fu all’origine dell’involuzione e delle disgrazie di Craxi, presumo che lo sarà anche per Renzi.

Allora il cosiddetto partito degli assessori e degli enti, forte di una legge elettorale fondata sulle preferenze e sul proporzionale a tutti i livelli aderì entusiasticamente al progetto craxiano ottenendone in cambio mani libere sul territorio: sia sul terreno delle alleanze sia sul terreno della gestione sia della continuità del gruppo dirigente. A gestire questa autonomia i segretari provinciali e regionali mediatori tra i vari gruppi soi disant craxiani.

Queste mani libere se da una parte diedero a Craxi il controllo sugli indirizzi nazionali dall’altra ne limitarono fortemente l’autonomia d’azione, molte giunte e molti eletti potevano “fregarsene” del segretario nazionale che chiedeva manifestazioni di fedeltà ma contrariamente a quello che si crede governava non regnava, autocrate solo a parole.

Al dunque il tanto deprecato dirigismo craxiano si scontrava con un notabilato che era molto più autonomo di quello che appariva. Così avvenne che la “grande riforma” che avrebbe dovuto rivoluzionare il sistema restò un bello slogan mentre buona parte delle modernizzazioni si arenarono nella palude del quieto vivere amministrativo.

Oggi con l’elezione diretta dei sindaci e dei governatori e l’indicazione delle leadership locali attraverso le primarie il partito degli assessori e degli enti e più forte che mai e le mani libere sono istituzionalmente riconosciute; la struttura locale può agevolmente, in virtù della logica federale del partito, infischiarsene del nazionale, non solo in Sicilia.

Il potere reale del segretario nazionale è solo nella gestione del finanziamento pubblico e nell’indicazione dei parlamentari più precisamente nel potere di concedere il simbolo, grazie al “porcellum”. Tuttavia il peso del finanziamento pubblico tra controlli e riduzioni difficilmente avrà in futuro l’importanza che ha avuto in questi anni. Resta il “porcellum”.

Poiché tutti vogliono cambiarlo il movimento per l’autoconservazione si sta organizzando per capire come ridurre gli effetti della rottamazione e mantenere il potere di indicazione nelle mani dei soliti noti, intendendo come soliti noti non solo le vecchie barbe ma anche giovani arrampicatori. Le buffe primariette del Natale scorso sono state un primo strumento.

Il secondo strumento è il recupero della la figura del segretario provinciale. Chi è il segretario provinciale? Non è più colui che tratta con gli altri partiti per dare vita a maggioranze, scegliere assessori, identificare sindaci come quando c’era la proporzionale, men che meno è un leader. È invece il garante delle varie correnti che compongono il partito, quello che finisce sui giornali, il potenziale candidato a tutto, il mediatore per eccellenza.

A termini di statuto rappresenta il partito e il suo indirizzo politico per quattro anni. Sopratutto è colui che gestirà tutte le prossime elezioni e campagne elettorali sia interne che esterne indipendentemente da quella che sarà la futura legge elettorale; in pratica è l’unica certezza e continuità dell’organizzazione. Quindi per ogni gruppo è importante averlo amico, quindi è importante eleggerlo svincolato dalle primarie nazionali, quindi in tutta Italia si è scatenata la bagarre. Voteranno solo gli iscritti, anche quelli che si iscriveranno il giorno del voto, quindi la campagna elettorale si rivolgerà ad una platea presumibilmente ridotta di militanti ma indefinita, insomma una campagna al buio ad elettorato variabile.

Così mentre una vasta maggioranza si appresta a incoronare Renzi attraverso il lavacro dei gazebo, localmente nascono più liste renziane, si realizzano alleanze apparentemente incomprensibili, ricompaiono le mitiche mozioni locali. Centinaia di migliaia forse milioni di elettori per il segretario nazionale, centinaia forse migliaia per i segretari provinciali. Curioso dualismo nella stessa organizzazione

A Milano il dibattito è già caldo: si narra di firme raccolte senza il nome del candidato (stile Formigoni), della Fondazione Quercioli da rottamare perché inquinante, si squalifica l’avversario definendolo come ex penatiano (a me sembra di ricordare che lo fosse il 95% del partito ma forse cogli anni i ricordi si confondono); come riassume esemplarmente Pizzul: “l’impressione è che sia in atto un vero e proprio braccio di ferro tra cordate o gruppi più o meno consolidati con l’obiettivo di conservare rendite di posizione più che di costruire percorsi e proposte da offrire alla città nella sua declinazione metropolitana“.

La lettura dei programmi e delle dichiarazioni a sostegno dei candidati, tolte le ovvietà di rito, è tutta una rivendicazione e una denuncia: Bussolati dice che “i consiglieri comunali hanno giocato di rimessa e che il partito non è stato interlocutore del sindaco” e che “abolirà regni e principati” facendo pensare al televisivo duca di Valentinois; Gentili si batterà “affinché nel nostro partito metropolitano si torni a votare. Si torni a scrivere documenti, a condividerli tra circoli” evidentemente fino a oggi sono stati vittima di leucopaginosi; Arianna Censi “è capace di andare oltre i renziani della prima ora” siamo già al dibattito sul sansepolcrismo.

In pratica tutti i candidati dicono che il partito in questi anni non è esistito malgrado abbia vinto le elezioni a Milano, Brescia, etc. Vien da dire che forse se fosse esistito ancora meno le avrebbe vinte anche in regione.

Abbiamo quindi un consiglio per Renzi, rottami la figura del segretario provinciale, la abolisca come vorrebbe abolire le provincie, lasciando come unità territoriale il comune e come struttura di riferimento i gruppi con i loro capogruppo eviterà di mantenere in piedi una organizzazione che al di là delle persone è solo un freno a qualsiasi rinnovamento.

 

Walter Marossi

 

 



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