24 maggio 2009

SIERI E VACCINI URBANI “CONTEMPORANEI”


In una bellissima lezione di ormai molti anni fa, Paolo Fabbri, da linguista che si applica allo spazio, raccontava come “la gente che studia lo spazio senza studiare le proprietà degli attori e la proprietà del tempo non capisce lo spazio. Isola semplicemente una proprietà, la mette in terza persona e pretende di studiarla. I logici prendono il discorso e lo denudano della enunciazione, gli tolgono le modalità e così via. Una volta che hanno ottenuto questa serie di proposizioni logiche lo rimettono sopra la lingua e scoprono che la lingua è tanto disobbediente, scoprono che non funziona, che la lingua è piena di paradossi, che parla male … Credo che l’architettura per certi versi fa questo tipo di pratica, cioè impoverisce la complessità della spazialità, denudandola dei suoi aspetti enunciativi, tentando di fissarla o prefissarla a dei ruoli infiniti che potrebbero abitarla, svuotandola della struttura di temporalità, poi la riapplica sul reale e scopre che il reale è tanto disobbediente.”.

Era l’inizio degli anni Ottanta. Da allora, il reale ha talmente disobbedito che qualsiasi “costruzione logica” dell’architettura ha segnato il passo. Oggi fioriscono le enunciazioni, le modalità infinite, non c’è più struttura (formale) che tenga. Non è né un male, se per struttura formale abbiamo in mente una Bicocca, o una “città italiana” a Shanghai (che è più o meno la stessa cosa, ma più bassa e più larga), né necessariamente un bene, di per sé, se in questa liquidità generalizzata ciò che prolifera è un catalogo di eccezioni da Campo Marzio piranesiano (City Life?), guardato con il filtro delle parole di Tafuri, “sperimentazione basata su deformazioni geometriche prive di limiti … esaltazione del frammento (che) permette anche di dimostrare quanto sia inutile tale affannoso rincorrersi di strutture eccezionali”. Appunto, per quanto eccezionali, pur sempre strutture sono. L’architettura (certa architettura) vive da tempo in questo equivoco, che è un po’ un paradosso: destrutturarsi producendo strutture.

Destrutturarsi perché così vuole il mercato dei segni, sembrerebbe, se no non ci sarebbe motivo. E produrre strutture perché così vuole il mercato immobiliare, ovviamente, e non gli si può dar torto. Insomma, il progetto architettonico non ha mai finito di cristallizzare il tempo, anche se lo ferma nell’istante dello sconquasso della forma. Intanto, quel reale che produce disobbedienti enunciazioni viene riassorbito nella sua macchietta parodistica, una metafora del brusio della lingua impoverita (di nuovo) di tutte le sue mobili strutture temporali, legate ai modi, alle situazioni e alle sfumature dei contesti.

E veniamo al contesto, allora, che nel nostro caso è l’ex Istituto Sieroterapico Milanese, dove i cantieri sono aperti per saturare il potenziale edificatorio complessivo dell’area, di circa 35.000 mq., con tre nuovi edifici ad uso terziario/industriale (progetto Dante Benini per Brioschi Sviluppo Immobiliare): “Come sempre avviene in questi casi il grande dilemma è di stabilire se percorrere la strada del falso storico, non necessariamente volgare, o quella di un intervento contemporaneo che possa convivere con un contesto cosi storicamente pregevole. Nell’acquisire questo incarico abbiamo somatizzato in modo profondo le poche note sopra descritte e per attitudine, ma anche perché ritenuta più idonea, abbiamo scelto di portare il tema sul piano della contemporaneità futuribile” (parole del progettista). Ed ecco quindi: “tre nuovi edifici progettati come bolle asimmetriche in vetro trasparente, per creare un’armoniosa integrazione dei nuovi volumi con l’esistente; le tre bianche e profonde coperture diventeranno grandi riflettori notturni di riferimento per la città” (parole dell’impresa appaltatrice).

Mica per fare le pulci, non sia mai, ma qui qualcosa non torna. Da una parte, non si capisce a beneficio di chi siano i tre “grandi riflettori notturni di riferimento”, visto che il tessuto urbano in cui sono inseriti mi sembra piuttosto denso per consentire loro di diventare un vero e proprio Landmark, se questo vogliono essere (e lo vogliono, ma da un elicottero, forse…), e comunque, queste sono ciarle da linguaggio commerciale. Dall’altra, si parla di “falso storico” come unica alternativa al contemporaneo, e si fa del contemporaneo una categoria un po’ troppo trasparente e coincidente con l’attualità, per non essere una banalizzazione e un’autogiustificazione. Ma il contemporaneo, di per sé, è una scatola vuota, e forse qualche motivazione in più sarebbe stata necessaria. Anzi, per dirla con Agamben, “la contemporaneità è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze … Il contemporaneo è colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di ‘citarla’ secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio”. E ancora: “Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio”. Insomma, mi sembra che ci siano troppe luci (leggi sicumera) in queste bolle di contemporaneità, al di là del giudizio che si voglia darne in termini di architettura e città. La quale, intanto, sopporta, assorbe, metabolizza (ma ci riesce davvero?).

Michele Calzavara



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