26 giugno 2013

musica


 

JOHN AXELROD N. 2

Scriviamo questa nota ancora increduli per quanto stiamo per raccontare. Auditorium di largo Mahler, martedì 18 giugno scorso, l’orchestra Verdi con il suo direttore principale, l’americano John Axelrod, in un concerto straordinario per il quale avremmo fatto qualsiasi sacrificio per non mancarlo, per di più con un programma quanto mai promettente composto dalla Quarta Sinfonia di Brahms (l’opera 98 in mi minore) e dalla Quinta Sinfonia di Beethoven (l’opera 67 in do minore). E non eravamo i soli ad accorrere visto che il teatro, a dispetto del caldo torrido che avrebbe dovuto scoraggiare chiunque dal mettersi per strada, era letteralmente gremito.

Avremmo fatto qualunque cosa per esserci anche perché solo quattro mesi fa avevamo ascoltato la medesima orchestra con il medesimo direttore in un concerto del tutto analogo, comprendente proprio la Quarta di Brahms ma associata alla Quarta di Beethoven, e avevamo scritto (ArcipelagoMilano del 13 febbraio) che “sentire un concerto diretto da Axelrod è come fare una cura ricostituente dell’anima; riesce a trasmettere gioia di vivere, amore per la musica e per la bellezza, allegria, fiducia nel creato … non ha alcuno dei tratti tipici di molti direttori, come la spocchia, il sussiego, la considerazione di sé o quanto meno della missione che ritiene dover adempiere; il suo è l’atteggiamento del ragazzo che si diverte da morire “servendo” la musica, l’orchestra e il pubblico. Che meraviglia“. È dunque facile immaginare l’entusiasmo e le aspettative.

Ebbene è invece difficile immaginare una esecuzione della meravigliosa Sinfonia brahmsiana tanto diversa da quella di quattro mesi fa: piatta, poco preparata, senza finezza, con un fraseggio scolastico, con il direttore poco concentrato e una interpretazione poco più che elementare. Il primo tempo, così avvolgente, non avvolgeva nessuno; il secondo, tanto ricco di poesia, era sopratutto noioso; il terzo ampolloso e roboante. Soltanto nella Passacaglia – il fantastico quarto tempo basato su un tema bachiano di sole otto note – si è sentita l’anima di Brahms ma la lettura dei trentuno episodi costruiti su quel tema mancava della necessaria lucidità. Sono episodi che non hanno bisogno di essere amalgamati, come li ha impostati il direttore, ma devono invece essere scanditi e scolpiti, uno dopo l’altro, come pietre miliari di un percorso; e non si giustifica la pausa fra il terzo e il quarto tempo, essendo ormai prassi consolidata che l’attacco del quarto debba seguire con immediatezza l’ultima nota del terzo per assecondarne l’evidente consequenzialità.

Fin qui Brahms. E Beethoven? Cominciamo col dire che non promette bene il direttore che dà l’attacco della Sinfonia (e che attacco … le quattro note più famose della storia della musica …) prima ancora di arrivare a mettere il piede sul podio. Solo per stupire e per mostrare i muscoli? Non c’è bisogno di un minimo di concentrazione sua, dei professori d’orchestra, dello stesso pubblico? E poi il problema dei tempi: come la Sinfonia di Brahms, anche quella di Beethoven è composta da tre Allegri e un Andante, ma si tratta di Allegri molto diversi tra loro. Brahms lo dice chiaramente: sono un “Allegro non troppo”, un “Allegro giocoso” e un “Allegro energico e passionato” (sic). Beethoven invece indica “Allegro con brio” il primo tempo e semplicemente “Allegro” il terzo e il quarto; ma mentre il primo è un Allegro in due quarti di altissima drammaticità, il secondo – che segue l’Andante con moto – con i suoi accenti danzanti in tre quarti ha il valore di uno Scherzo, e l’ultimo, in quattro quarti, è un canto di vittoria, liberatorio, potente, elettrizzante. Non si può, come inopinatamente ha fatto Axelrod, assegnare lo stesso tempo a tre Allegri tanto diversi.

Come si spiega un esito così contrastante fra due concerti tanto ravvicinati, addirittura con un programma in parte uguale? Non abbiamo altra spiegazione che la solita: dirigono troppo, viaggiano troppo, provano poco, quando sanno di avere già conquistato un determinato pubblico non si impegnano più di tanto; in questo caso poi un’unica replica (“concerto straordinario”, forse per completare una registrazione) con un repertorio arcinoto (Axelrod, giustamente, ha diretto entrambe le Sinfonie a memoria) e finisce che ci si fida troppo, di se stessi, dell’orchestra e anche del pubblico.

Ma con i capolavori non si può scherzare. Proprio perché li abbiamo sentiti e risentiti all’infinito non possono esserci riproposti senza un impegno superiore al comune, perché non vogliamo andare a sentire “sempre la stessa musica”, ma ogni volta una musica nuova, diversa, perché tutto cambia intorno a noi e deve cambiare anche il modo eseguire e di ascoltare le stesse note. Se non si fa ogni volta un passo avanti nell’interpretazione e nell’esecuzione musicale, se quando quelle stesse note che conosciamo a memoria non ci sorprendono e non ci incantano più, se non c’è gioco fra la memoria degli ascoltatori e la creatività degli interpreti, i capolavori rischiano di diventare noiosissimi. Come è capitato l’altra sera.

 

 

P.S. L’avvenente signora che era seduta accanto a noi, nel constatare che non applaudivamo convintamente ce ne ha chiesto ragione e appena abbiamo fatto un minimo cenno al dissenso sulla interpretazione proposta dal direttore si è alzata di scatto e si è allontanata indignata dichiarando di esserne la consorte. Mah.

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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