18 maggio 2009

DOVE VA L’OSPEDALE


Quando ero un giovane medico, assistente volontario all’Istituto di Patologia Medica dell’Università di Milano, allora al padiglione Sacco del Policlinico, i ricoveri dei pazienti duravano in genere tra uno e due mesi e, in alcuni casi, anche di più. Gli ammalati erano ammassati in camerate nelle quali le condizioni di vita mi parevano orribili e tuttavia, per lo più non si lamentavano e anzi mostravano di gradire i ricoveri lunghi. Questo dipendeva dalle condizioni sociali dell’Italia di allora, nella quale abbondavano i poveretti che nell’ospedale vivevano meglio che a casa loro, mangiavano un cibo migliore, erano accuditi e assisti.

Oggi le cose sono radicalmente cambiate, gli ospedali sono diventati dei luoghi molto meglio vivibili, l’istituzione è cambiata da opera di carità in struttura tecnica in grado di somministrare gli accertamenti clinici e le terapie migliori. E’ questo un frutto del mutamento della situazione sociale del nostro Paese del quale non possiamo che rallegrarci. Oggi i ricoveri brevi sono preferiti da tutti, ma non esistono più problemi? Purtroppo ci sono problemi di altro tipo che cercherò di spiegare proprio partendo dalla durata dei ricoveri e considerando il costo dell’assistenza ospedaliera.

Fino al 1996 il Sistema Sanitario Nazionale, attraverso le Regioni, pagava le degenze in base a una quota giornaliera, esattamente come in un albergo. Dal punto di vista della remunerazione dell’ospedale un ricovero lungo era più vantaggioso di uno breve, perché divenivano numerosi i giorni nei quali non venivano eseguite indagini cliniche o trattamenti costosi. Comprimere questi in un periodo più breve significava non solo perdere il beneficio delle giornate “vuote”, ma anche spendere di più per organizzare un più rapido funzionamento dei servizi diagnostici e terapeutici. Certamente c’erano delle trattative e dei controlli delle Regioni, ma il sistema era certamente difettoso. Bisognava perciò cambiarlo e fu cambiato nel 1996.

Il sistema attuale, ispirato alle esperienze delle assicurazioni americane è detto dei DRG, acronimo che sta per Diagnosis Related Groups, e stabilisce che, per ogni data diagnosi sia fissata una remunerazione, indipendentemente dalla durata del ricovero. E’ chiaro allora che gli ospedali, a parità di diagnosi, avrebbero avuto interesse a fare ricoveri brevi per aumentare il numero di casi clinici per i quali avrebbero avuto la remunerazione dipendente dal DRG. Questo avrebbe dovuto portare a un aumento del numero di pazienti che venivano a occupare un singolo letto ospedaliero e a una migliore programmazione di tutto il sistema dell’assistenza ospedaliera. In teoria un buon sistema e tuttavia sono emersi dei problemi.

Prima di spiegare quali vorrei fare un’osservazione. Penso che esista una fondamentale differenza tra le assicurazioni americane che pagano i ricoveri ospedalieri ai loro iscritti e il Sistema Sanitario Nazionale Italiano. Le assicurazioni, se vedono che spendono troppo, possono aumentare i premi versati dai loro assicurati o anche rescindere i contratti, in questo modo calmierando i costi dei ricoveri ospedalieri. Il Sistema Sanitario Nazionale Italiano, fatto del quale dobbiamo essere felici e orgogliosi, deve invece assicurare a tutti l’assistenza medica necessaria anche quando richiede un ricovero ospedaliero. Ebbene, la remunerazione in base al sistema dei DGR è stabilita tenendo anche conto del costo dei procedimenti diagnostici (più costosi se sono invasivi) e terapeutici (più costosi se sono chirurgici piuttosto che medici). E, siccome a procedimenti più costosi corrispondono remunerazioni più elevate, questo costituisce una motivazione per gli ospedali a preferire i procedimenti diagnostici invasivi e i trattamenti chirurgici, provocando una distorsione delle decisioni mediche.

Recentemente, sulla terza rete della TV della Rai Milena Gabanelli ha affrontato questo problema, dando l’impressione che questo sia un problema della sola sanità privata. Io penso che il problema esista anche per la sanità pubblica. Certo, si può obiettare che i medici agiscono di regola secondo coscienza e che casi, come quello che recentemente ha investito la chirurgia toracica della Clinica Santa Rita, sono eccezioni, ma la distorsione resta. Questo è un argomento sul quale ci sarebbe molto da dire, ma a me basta farne cenno.

Ma esistono anche altri problemi. Più in generale si può dire che questo dei DRG è solo uno dei casi nei quali, con le migliori intenzioni di favorire l’efficienza e l’economicità del sistema sanitario, si possono creare dei disagi a un buon esercizio delle prestazioni ospedaliere. Ne menzionerò solamente altri due tra di loro correlati, la riduzione delle strutture di Medicina Generale e la difficoltà, almeno in Lombardia, a effettuare ricoveri elettivi.

L’avanzamento tecnologico della medicina moderna e la crescente complessità del sapere medico hanno promosso la crescita di strutture ospedaliere specialistiche. Uno sviluppo logico e razionale se non fosse che è avvenuto a spese delle strutture di medicina e chirurgia generale. Io parlo della medicina, che è il settore del quale ho diretta esperienza e debbo dire che le strutture di Medicina Generale sono quelle che debbono fronteggiare le patologie più urgenti (come in corso di epidemie d’influenza con abbondanza di polmoniti) e i casi di più incerta diagnosi. Questo ha portato a una crescente difficoltà a ricoverare tutti i pazienti che ne fanno richiesta e a un’obiettiva carenza di posti letto, soprattutto negli ospedali di maggiore prestigio, come sono quelli universitari o alcuni grandi complessi anche non universitari.

La Regione Lombardia ha percepito questo problema e ha stabilito che i ricoveri nei reparti di medicina generale debbano avvenire ed essere proseguiti solamente in condizioni di urgenza o di gravità delle condizioni morbose. Questo ha reso però molto difficile, per non dire impossibile, effettuare i ricoveri elettivi, intendendo per tali quelli che riguardano pazienti con situazioni complesse che richiedono un accertamento o un perfezionamento della diagnosi e un’esecuzione della terapia grazie a una serie di esami e di osservazioni attuabili adeguatamente solo in ambiente ospedaliero. La risposta potrebbe essere che lo stesso potrebbe essere fatto in regime di day-hospital, ma l’organizzazione di questo richiede personale e strutture che non sono ovunque disponibili. E poi la Lombardia è meta di numerosi pazienti provenienti da altre regioni che non potrebbero essere gestiti in regime di day-hospitale. E infine, per un milanese o abitante dell’hinterland, residente molto lontano dall’ospedale di riferimento, le cose sarebbero poi tanto diverse? Purtroppo questa è una grossa difficoltà che non è risolta e che penalizza soprattutto gli ospedali universitari dove i casi complessi sono importanti per addestrare alle difficoltà diagnostiche e terapeutiche i futuri medici. Ma non c’è da stupirsi di tutto questo perché non si tratta che del riflesso di una carenza culturale, che è una conoscenza inadeguata dei rapporti tra medicina interna e medicina specialistica.



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