5 giugno 2013

arte


LA BIENNALE ENCICLOPEDICA DI GIONI

Il 1 giugno ha aperto la 55º Esposizione internazionale d’arte di Venezia, firmata dal più giovane curatore nella storia della Biennale, Massimiliano Gioni, superstar nostrana dal curriculum importante, ad “appena” 39 anni. Il titolo dell’evento è imponente: “Il Palazzo Enciclopedico“, ripresa dichiarata del progetto pensato dall’artista-architetto italoamericano Marino Auriti, che nel 1955 aveva depositato il brevetto per realizzare un edificio di 136 piani destinato a contenere ‘tutto il sapere dell’umanità, collezionando le più grandi scoperte del genere umano, dalla ruota al satellite”.

Un’impresa chiaramente impossibile, rimasta utopica, ma che ha dato spunto a Gioni per creare una Biennale che si preannuncia essere ricca di sorprese e meraviglie. Concentrare in un luogo solo tutto il sapere (artistico) del panorama contemporaneo, con i grandi di ieri e di oggi: una sfida per Gioni, accettata però dai 150 artisti provenienti da 38 Paesi diversi.

Sviluppata come sempre tra il Padiglione Centrale, i Giardini e l’Arsenale, la Biennale è concepita come un museo contemporaneo, e, spiega Gioni “l’esposizione sviluppa un’indagine sui modi in cui le immagini sono utilizzate per organizzare la conoscenza e per dare forma alla nostra esperienza del mondo”. Insomma quel sogno che da sempre rincorre l’uomo di poter arrivare al sapere sommo e totale, viene abbozzato da Gioni nella sua Biennale, chiamando gli artisti a contribuire con un pezzetto di arte, a questa utopia.

Un percorso e un allestimento che si preannunciano in stile Wunderkammer, le celebri camere delle meraviglie in voga tra 1500 e 1600, destinato a suscitare stupore e sorpresa, ma anche a far riflettere sul senso dell’arte oggi, secondo una progressione di forme naturali e artificiali, messe insieme per strabiliare lo spettatore. “Il Palazzo Enciclopedico è una mostra sulle ossessioni e sul potere trasformativo dell’immaginazione e si apre al Padiglione Centrale ai Giardini con una presentazione del Libro Rosso di Carl Gustav Jung” – dice Gioni, riferendosi al manoscritto illustrato al quale lo psicologo lavorò per sedici anni, posto in apertura del Padiglione Centrale.

Un lavoro che stimola la riflessione sulle immagini, soprattutto interiori e sui sogni in chiave psicanalitica, cancellando le distinzioni “tra artisti professionisti e dilettanti, tra outsider e insider” – dice ancora Gioni – “l’esposizione adotta un approccio antropologico allo studio delle immagini, concentrandoci in particolare sulle funzioni dell’immaginazione e sul dominio dell’immaginario”.

La Mostra sarà affiancata da 88 partecipazioni nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, con ben dieci Paesi new entry: Angola, Bahamas, Regno del Bahrain, Costa d’Avorio, Repubblica del Kosovo, Kuwait, Maldive, Paraguay, Tuvalu e Santa Sede. E la partecipazione di quest’ultima è forse la novità più forte, con una mostra allestita nelle Sale d’Armi, fortemente voluta dal cardinal Bagnasco.

E il sempre chiacchieratissimo Padiglione Italia? Quest’anno il compito curatoriale è toccato a Bartolomeo Pietromarchi, che ha deciso di lavorare sugli opposti, con “Vice versa“, titolo scelto riprendendo un concetto teorizzato da Giorgio Agamben nel volume “Categorie italiane. Studi di Poetica” (1996), in cui il filosofo sosteneva che per interpretare la cultura italiana fosse necessario individuare una “serie di concetti polarmente coniugati” capaci di descriverne le caratteristiche di fondo. Binomi quali tragedia/commedia o velocità/leggerezza divengono così originali chiavi di lettura di opere e autori fondanti della nostra storia culturale. Una attitudine al doppio e alla dialettica che è particolarmente cara alle dinamiche dell’arte contemporanea italiana.

Quattordici gli artisti invitati e ospitati in sette stanze: Francesco Arena, Massimo Bartolini Gianfranco Baruchello, Elisabetta Benassi, Flavio Favelli, Luigi Ghirri, Piero Golia, Francesca Grilli, Marcello Maloberti, Fabio Mauri, Giulio Paolini, Marco Tirelli, Luca Vitone, Sislej Xhafa. Gli artisti, in un dialogo di coppia, compongono un viaggio nell’arte italiana di ieri e di oggi, letto però non come una contrapposizione di stili, forme o correnti, ma piuttosto come un atlante del tempo recente che racconta una storia tutta nazionale.

Insieme ai tantissimi eventi collaterali sparsi per la città, non resta che scoprire, vivendola dal vivo, questa promettente, e ricca di citazioni, Biennale. Per scoprire i vincitori, clicca qui.

Ph_Editta Grasso

 

IL NAPOLEONE RESTAURATO

Dal 1859 sorveglia l’Accademia e la Pinacoteca di Brera. In un secolo e mezzo di vita ha visto passare artisti, personalità illustri, studenti e appassionati d’arte. Ora, finalmente, si concede un meritato restauro. Protagonista di un intervento che durerà 12 mesi è proprio il Napoleone come Marte Pacificatore di Antonio Canova, statua bronzea che troneggia al centro del grande cortile d’onore in omaggio a colui che, nel 1809, fondò la Real Galleria di Brera.

Dal prossimo giugno l’imponente scultura sarà circondata da una teca di vetro, attraverso la quale si potranno seguire, passo dopo passo, i progressi compiuti sul grande bronzo, proprio come è consuetudine per i restauri sui dipinti della Pinacoteca, esposti al centro del percorso museale in un laboratorio di vetro. Sistemati, ripuliti e messi a nuovo da abili restauratori che lavorano sotto gli occhi (curiosi) di tutti. Pannelli illustrativi e attività didattiche per scuole e appassionati accompagneranno i restauri, sponsorizzati da Bank of America Merrill Lynch, dall’Associazione Amici di Brera e dei Musei Milanesi e dalla Soprintendenza per i beni storici artistici e etnoantropologici di Milano.

Che fosse necessario un restauro era evidente da tempo: la superficie ha subito alterazioni causate da fattori metereologici e dall’inquinamento atmosferico, così come sono visibili distacchi e cadute di frammenti e crepe nel marmo posizionato sotto il piedistallo della statua. Un Napoleone che ha avuto vita non facile, fin dall’inizio. L’opera fu commissionata nel 1807 da Eugenio di Beauharnais, vicerè del Regno d’Italia, allo scultore Antonio Canova, ma non essendo ancora pronta, per problemi con la fusione, nel 1809, per l’inaugurazione della Pinacoteca di Brera, Beauharnais acquisì a Padova il calco in gesso, da esporre in quella occasione. Il gesso, depositato in un’aula dell’Accademia, è stato riesposto in uno dei saloni della stessa Pinacoteca, in concomitanza con le celebrazioni dei duecento anni dell’istituzione museale, avvenuti nel 2009.
Dopo il declino della fortuna e del comando di Napoleone, la statua in bronzo, che a Milano non aveva mai trovato collocazione in luogo pubblico, fu abbandonata nei depositi del palazzo di Brera. Riemerse alla luce all’epoca dell’arrivo in Lombardia di Napoleone III, a conclusione della seconda guerra di indipendenza italiana. Nel 1859 la statua fu eretta su un basamento temporaneo nel cortile principale di Brera. Solo nel 1864 fu inaugurato l’attuale basamento in granito e in marmo di Carrara progettato da Luigi Bisi, docente di prospettiva all’Accademia di Brera, ornato con aquile e fregi di bronzo.
La statua in bronzo fu ottenuta con un’unica fusione (ad eccezione dell’asta e della vittoria alata) tenendo conto delle prescrizioni dettate dallo stesso Canova: l’asta tenuta nella mano sinistra è composta da due elementi avvitati; la vittoria alata, che però fu rubata, è stata all’inizio degli anni ’80 ricostruita basandosi su documentazione fotografica. Una curiosità: il bronzo utilizzato per la fusione proviene da cannoni in disuso di Castel Sant’Angelo a Roma.
Un restauro iniziato in un momento non causale: il progetto è parte del lavoro di valorizzazione che la Pinacoteca di Brera ha avviato in preparazione dell’EXPO 2015, in cui giocherà un ruolo fondamentale sulla scena culturale non solo milanese ma anche internazionale.

IL TEATRO FOTOGRAFICO DI JEFF WALL

Al PAC fino al 9 giugno è possibile vedere Jeff Wall-Actuality, la prima grande retrospettiva italiana del grande fotografo canadese. Curata da Francesco Bonami, l’esposizione presenta 42 opere, alcune inedite, che raccontano con temi a volte forti, a volte surreali, la carriera di uno degli artisti contemporanei più amati e stimati.

Le opere di Wall sembrano immagini scattate all’improvviso, azioni catturate all’insaputa dei protagonisti, attimi di vita che raccontano storie urbane e quotidiane, in cui ognuno può facilmente riconoscersi. A ben guardare però, ecco che le fotografie sono in realtà studiatissime, preparate e studiate nei minimi dettagli per suscitare stupore, ansia, inquietudine e per lasciare domande irrisolte, su cui lo spettatore si arrovellerà per tutto il corso della visita. Un processo lungo e metodico, come spiega l’artista stesso, che impiega giorni e a volte settimane intere per provare uno scatto, posizionando attori e oggetti nella composizione da lui immaginata. Se il risultato non è perfetto, ecco che Wall interviene in post produzione modificando digitalmente le immagini.

I temi esplorati da Wall non sono mai leggeri: violenza, povertà, razzismo, tensioni sociali. C’è ad esempio Mimic, opera celebre del 1982, in cui una coppia cammina per strada facendo il verso a un asiatico che cammina lì accanto; oppure c’è Insomnia, angosciante ritratto di un uomo sfinito dalla sua misera vita, che cerca di addormentarsi sotto il tavolo della cucina. Wall
spazia da scenari claustrofobici a scene apparentemente insignificanti, come l’affascinante Morning Cleaning Barcelona (1999) o i dettagli di rami e arbusti tagliati, sporchi di rifiuti, simbolo del degrado urbano delle grandi città a cui nessuno di noi, ormai, presta più attenzione.

Dai suoi scatti emerge una predilezione per gli angoli che sembrano dimenticati e abbandonati, come le finestre sbarrate di Blind Window o i muri scrostati della serie Diagonal Composition (1993 – 2000). Una fotografia fatta di citazioni e riproposizioni dei grandi artisti della storia dell’arte, come se i protagonisti di immagini come In front of a Nightclub (2006) diventassero gli attori di un inaspettato tableaux vivant.

In mostra anche i famosi “lightbox“, foto luminose mutuate dal linguaggio pubblicitario tipicamente americano e segno riconoscibile del suo lavoro di lunga data, iniziata nel 1978. Pioniere della fotografia concettuale o post-concettuale della cosiddetta “Scuola di Vancouver”, con le sue riflessioni Wall ha aperto la strada a innumerevoli artisti influenzandoli con il suo mondo immaginifico e con il suo sistema di lavoro studiatissimo e dettagliato.

JEFF WALL / ACTUALITY PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, fino al 9 giugno 2013, Orari lunedì 14.30 – 19.30, martedì – domenica 09.30 – 19.30, giovedì 09.30 – 22.30 Biglietti euro 8,00 intero, 6,50 ridotto

 

 

LA POP ART DI WARHOL E LE STAMPE A DIAMANTI

Settimana scorsa, come già anticipato, al Museo del 900 c’è stata l’apertura a ingresso gratuito della mostra Andy Warhol’s Stardust. Stampe dalla collezione Bank of America Merrill Lynch, a cura di Laura Calvi. Protagoniste le brillanti, e preziosissime, stampe di Andy Warhol, artista sopra le righe e padre della Pop Art americana. Lo stardust indicato nel titolo richiama davvero la polvere di diamante usata per rendere brillanti e uniche queste stampe, ma anche tutta quell’allure che da sempre circonda il nome e il lavoro di Warhol stesso.

Dagli anni ’60 agli anni ’80, la mostra ripropone i soggetti più noti creati dall’artista di Pittsburgh. Imperdibili i Flowers in tonalità fluo, le indimenticabili Campbell’s Soup, i divertenti Fruits e i meno noti, ma altrettanto vivaci, Sunset. Un procedimento di lavoro, quello di Warhol, molto simile a quello dell’artista contemporaneo Damien Hirst. Entrambi hanno affidato, e affidano, la produzione dei loro lavori ad assistenti specializzati, nel caso di Warhol c’era addirittura la famosa Factory a “servirlo”, e solo alla fine i due maestri ritoccano e aggiustano dei dettagli con il loro tocco personale. Tocco che fa lievitare le loro opere a diversi milioni di dollari. Ma d’altra parte quelle di Warhol erano opere Pop, nate e pensate per essere vendute e riprodotte in gran quantità, in linea con la produzione di massa, anche artistica.

Oltre ai fiori e ai frutti, da ammirare anche i celebri volti ritratti da Warhol: Mohammed Alì, Marylin, e le copertine di “Interview” create appositamente dall’artista, che sponsorizza, tra l’altro, i “suoi” Velvet Underground e la loro famosa banana-simbolo. Personaggi reali ma non solo. Nella serie dei Myths Warhol rappresenta Topolino e gli eroi dei fumetti, dando loro la stessa effimera concretezza dei personaggi di Hollywood e dello spettacolo, mettendo insieme la collezionista Gertrude Stein, Babbo Natale, Einstein, Superman e i fratelli Marx.

Nuove nel taglio anche le didascalie, non più banali cartellini descrittivi ma etichette a muro in colori fluo, con interessanti citazioni dell’artista e dei suoi contemporanei che ne spiegano e approfondiscono il lavoro, dando anche un quadro generale su quegli anni e sulle difficoltà economiche, razziali o semplicemente raccontando aneddoti legati alle opere.

L’allestimento intero, a cura di Fabio Fornasari, ricorda la corsia di un supermercato, in cui le opere d’arte sono esposte con la stessa freddezza e precisione dei prodotti di consumo quotidiani, in cui è possibile, virtualmente, comprare le lattine Campbell e i frutti di stagione, insieme alle riviste di musica rock, con una spolverata di polvere di diamanti.

Andy Warhol’s Stardust. Stampe dalla collezione Bank of America Merrill Lynch, Museo del 900, Fino all’8 settembre Orari lunedì 14.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30 giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Ingresso intero 5 euro ridotto 3 euro

 

 

LEONARDO E LE MACCHINE RICOSTRUITE

Come faceva Leonardo Da Vinci a progettare le sue macchine volanti? Potevano davvero volare? Che cos’era il famoso Leone Meccanico? Perché non venne mai portato a termine il colossale monumento equestre di Francesco Sforza? Queste sono solo alcune delle domande che potranno avere risposta grazie all’innovativa – e unica nel suo genere – mostra che si è appena aperta in una location d’eccezione: gli Appartamenti del Re nella Galleria Vittorio Emanuele.

Tutto nasce dall’idea di tre studiosi ed esperti, Mario Taddei, Edoardo Zanon e Massimilano Lisa, che hanno saputo mettere insieme e creare un centro studi e ricerca dedicato a Leonardo, alle sue invenzioni e alla sua attività, con risultati sorprendenti sia sul fronte delle esposizioni, sia su quello della divulgazione.

Leonardo3 (L3) è parte di un progetto più ampio, di un innovativo centro di ricerca la cui missione è quella di studiare, interpretare e rendere fruibili al grande pubblico i beni culturali, impiegando metodologie e tecnologie all’avanguardia. Sia i laboratori di ricerca sia tutte le produzioni L3 (modelli fisici e tridimensionali, libri, supporti multimediali, documentari, mostre e musei) sono dedicati all’opera di Leonardo da Vinci. E i risultati sono stati straordinari: L3 ha realizzato il primo prototipo funzionante al mondo dell’Automobile di Leonardo, hanno ricostruito il Grande Nibbio e la Clavi-Viola, il primo modello fisico della Bombarda Multipla, il primo vero modello del Pipistrello Meccanico, il Leone Meccanico e il Cavaliere Robot, oltre a interpretazioni virtuali e fisiche inedite di innumerevoli altre macchine del genio vinciano.

Non solo macchine però. Fondamentali per la riscoperta e la creazione dei prototipi sono stati i tanti codici leonardeschi, tra cui il famoso Codice Atlantico interamente digitalizzato, così come il Codice del Volo, presentato in Alta Definizione, in cui ogni singolo elemento è interattivo. E queste tecnologie diventeranno, in futuro, sempre più utili per studiare manoscritti antichi e fragilissimi, come i diversi Codici e taccuini, già molto rovinati dall’usura e dal passare dei secoli.

Una mostra che divertirà grandi e bambini, che potranno toccare con mano le macchine e i modellini ricostruiti, testarsi sui touch screen per comporre, sezionare o vedere nel dettaglio, tramite le ricostruzioni 3D, i vari pezzi delle macchine di Leonardo, far suonare la Clavi-Viola e costruire, davvero, un mini ponte autoportante.

Una delle ultime sezioni è poi dedicata ai dipinti di Leonardo, su tutti la famosa Ultima Cena. Una ricostruzione digitale e una prospettica permettono di ricostruirne strutture e ambienti, di capirne perché Leonardo “sbagliò” di proposito la prospettiva e di approfondire alcuni dettagli. I modelli sono stati costruiti rispettando rigidamente il progetto originale di Leonardo contenuto nei manoscritti composti da migliaia di pagine, appunti e disegni. Il visitatore avrà anche la possibilità di leggere i testi di Leonardo “invertendo” la sua tipica modalità di scrittura inversa (da destra a sinistra).

L3 si è già fatto conoscere nel mondo, le mostre sono state visitate da centinaia di migliaia di persone in città e Paesi come Torino, Livorno, Vigevano, Tokyo, Chicago, New York, Philadelphia, Qatar, Arabia Saudita e Brasile. Occasione imperdibile.

Leonardo3 – Il Mondo di Leonardo -piazza della Scala, ingresso Galleria Vittorio Emanuele II, fino al 31 luglio, orari: tutti i giorni dalle ore 10:00 alle ore 23:00, biglietti: € 12 intero, € 11 studenti e riduzioni, € 10 gruppi, € 9 bambini e ragazzi, € 6 gruppi scolastici.

 

 

MODIGLIANI, SOUTINE E LA COLLEZIONE NETTER

Di Modigliani si è detto e scritto di tutto. A iniziare dal suo soprannome, Modì, gioco di parole tra il suo cognome e l’espressione peintre maudit, il pittore folle. Si sa della sua dipendenza cronica da alcol e droghe, si sa del suo grande amore, l’eterea Jeanne, si sa della loro tragica fine.

Esponente di rilievo della cosiddetta Scuola di Parigi, Modigliani ha davvero segnato un’epoca, pur nella sua breve esistenza, influenzando artisti e generazioni future. Un artista incompreso, come molti altri all’inizio della carriera, e che potè sopravvivere soprattutto grazie all’aiuto di generosi e lungimiranti mecenati. Dopo Paul Alexandre e Paul Guillaume, entra in gioco un collezionista atipico, schivo e riservato, che aiuterà Modì nei suoi anni più cruciali: Jonas Netter.

Industriale ebreo emigrato a Parigi, Netter negli anni riuscirà a mettere insieme una straordinaria collezione di opere d’arte, più di duemila, scegliendo gli artisti più promettenti e interessanti, affidandosi al suo gusto personale ma anche a quello di un uomo completamente diverso da lui per stile di vita e carattere, Leopold Zborowski. Polacco, arriva a Parigi nel 1914 insieme alla moglie, per tentare la carriera artistica. La ville lumière lo trasformerà invece, a suo dire, in poeta. E in un mercante. Grazie alle conoscenze e alle frequentazioni dei caffè e dei locali di Montparnasse, Zborowski conosce e frequenta gli studi degli artisti più talentuosi, e poveri, che stipendia e compra per Netter, con il quale aveva precisi rapporti commerciali. Un sodalizio lungo più di un decennio, interrotto in brusco modo nel 1929, e che condurrà Netter ad avere 50 dipinti di Modigliani, 86 Soutine e 100 Utrillo.

Ed è proprio Maurice Utrillo, figlio della ex modella e pittrice Suzanne Valadon, a essere stato il grande amore di Netter. In mostra molti paesaggi, declinati nei diversi periodi e momenti della sua vita. La precoce dipendenza di Utrillo dall’alcol non gli ha impedito di lavorare tantissimo, a scopo terapeutico, e di ispirarsi alla pittura impressionista, soprattutto di Pissarro. Netter amava i suoi artisti come dei figli, sostenendoli in ogni modo: pagava stipendi, studi e materiali, pagava anche alcol e cliniche di disintossicazione.

Ma in realtà la collezione è molto variegata. Oltre agli artisti maledetti per eccellenza, Modì e Soutine -con i suoi paesaggi espressionisti e i materici “quarti di bue”- presenta anche fauve come Derain con le fondamentali Grandi bagnanti del 1908, e de Vlaminck; molte opere di Suzanne Valadon, il neoplasticista Helion, Kisling, Kikoine, Kremegne e altri artisti dell’Est- e non solo- scappati da una vita di miseria per approdare a Parigi, città ricca di promesse, di collezionisti e simbolo, con Montmartre, Montparnasse e i loro caffè, di una vita bohemien e ribelle.

Certo non tutto è al livello delle opere di Modigliani, sono presenti anche pittori minori e nomi forse poco conosciuti. Ma d’altra parte la collezione è il frutto del gusto e dell’estetica personale di Netter, che ha saputo riunire tutti quegli artisti, diversi per storia, cultura e Paese, e che hanno segnato la storia dell’arte europea.

Dice il curatore, Marc Restellini: “Questi spiriti tormentati si esprimono in una pittura che si nutre di disperazione. In definitiva, la loro arte non è polacca, bulgara, russa, italiana o francese, ma assolutamente originale; semplicemente, è a Parigi che tutti hanno trovato i mezzi espressivi che meglio traducevano la visione, la sensualità e i sogni propri a ciascuno di loro. Quegli anni corrispondono a un periodo d’emancipazione e di fermento che ha pochi eguali nella storia dell’arte“.

Di Jonas Netter, uomo nell’ombra, oggi non rimane quasi niente, solo un suo ritratto fatto da Moise Kisling e qualche lettera. La sua eredità più grande sono senza dubbio le opere d’arte che oggi, dopo più di settanta anni, tornano a essere esposte insieme per ricreare una delle epoche d’oro della pittura europea.

Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti – Palazzo Reale, fino all’8 Settembre 2013 – Orari: Lunedì: 14-30 – 19.30. Dal martedì alla domenica: 9.30-19.30. Giovedì e sabato: 9.30-22.30 – Costo: Intero 9 euro, ridotto 7,50 euro.

 

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org




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