15 maggio 2013

UN TORMENTONE: IL PADIGLIONE ITALIA EXPO 2015


Parlare dell’architettura del Padiglione Italia per Expo 2015 ci induce ad amare considerazioni in generale sull’architettura in Italia e sugli architetti. La si può prendere come metafora di una situazione che si protrae ormai da almeno cinquant’anni. Poiché l’architettura è un mass-media del potere e quest’ultimo è da noi in massimo grado degenerato in demagogia abbiamo di conseguenza un monumento a essa. In primis è da criticare la scelta di istituire un concorso internazionale per un padiglione che doveva rappresentare l’Italia, come se si avesse bisogno di apporti stranieri per incapacità nazionale a produrre un manufatto rappresentativo.

Per fortuna il primo classificato è uno studio italiano, non so quanto sia stata pilotata questa scelta: è noto che le commissioni sono a volte composte da persone che hanno le antenne sviluppate e qualche ronzio devono averlo sentito. Allora tanto valeva fare un concorso per soli italiani e magari aperto anche ai giovani che, escludendo gli studi senza fatturato, sono stati a guardare. In Italia abbiamo un architetto ogni 460 abitanti, un’inflazione dovuta alle università che hanno pompato iscritti per aumentare i finanziamenti fuori da ogni etica e responsabilità di dare risposte alla domanda reale della società. Personalmente sarei dell’idea di chiudere le facoltà di architettura per almeno un quinquiennio.

Stando così la situazione nazionale e il numero spropositato di laureati in architettura alla ricerca di identità l’Expo bandisce un concorso di idee aperto solo ai grandi studi con fatturato. Ho già esposto in un altro mio scritto precedente cosa penso dei concorsi in generale, questo non tradisce il giudizio espresso: sfruttamento di manodopera gratuita e specchietti per le allodole da dare in pasto ai media quando le cose non vanno. Le commissioni chiamate a giudicare in genere sono rappresentative di un potere svagato e distratto, lontano dagli interessi del territorio, spesso incompetente e arrogante.

Questi sono alcuni vizi di partenza: era inevitabile che il risultato fosse quello che è, cioè che non rappresenti nessuno o, meglio, raffiguri banali stereotipi dell’Italia, come nel film americano “Mangia, prega, ama” dove gli italiani vengono descritti come nullafacenti mangioni e compagnoni. Non rappresenta certo il dibattito in corso per una nuova estetica legata a un pensiero ecologico, anche se vuole essere un manifesto naturista. A guardare quelle immagini viene in mente un altro spazio espositivo messo a concorso circa quarant’anni fa, il Centre Pompidou al Beaubourg di Parigi, vinto in quell’occasione dallo studio internazionale Piano- Rogers. In quarant’anni siamo passati dai tubi da oleodotto ai tronchi d’albero.

Vale a dire quarant’anni fa andava di moda il tecnologicamente corretto oggi l’ecologicamente corretto. Il Beaubourg i parigini lo chiamano “rafinerie de petrole“, in quarant’anni ne è passata di acqua sotto i ponti se alla raffineria abbiamo sostituito la foresta, ma è passata invano perché il problema è un altro: l’architettura è diventata sempre più un evento mediatico, una performance effimera che si staglia anomala sulla città, basti pensare ai Liebeskind, ai Cesar Pelli, a City Life e Porta Volta, tuttavia non dura lo spazio di un mattino. Queste anomalie ce le ritroviamo per decenni e la città fatica a metabolizzarle, non tutte possono essere la Tour Eiffel, costruita per l’Expo 1889 e rimasta a imperitura memoria, anche perché l’eccezione non può diventare la regola del costruire. La provocazione va bene ma se diventa continua si tramuta in omologazione.

Oggi la vera provocazione è tornare a utilizzare gli elementi naturali più umili, più semplici e rinnovabili, appartenenti alla tradizione del luogo dando loro un nuovo valore identitario che affronti senza timore la globalità. Una bella provocazione è quella ad esempio di Fulvio Scaparro che ha proposto invece di monumenti all’arroganza un parco per bambini, Aulì aulè.

 

Maurizio Spada



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