8 maggio 2013

PADIGLIONE ITALIA: IL RAPPRESENTABILE E IL PREVEDIBILE


Non è semplice esercitare nel nostro paese quel sacrosanto diritto di critica che troppo spesso viene interpretato come volontà polemica o sterile vocazione allo scontro. Quando l’agone culturale è quello dell’architettura, le cose si complicano perche non esiste una fenomenologia più aleatoria del progetto e la sua analisi interpretativa è frutto spesso o d’improvvisazione o di esercizio agiografico. Ma vogliamo parlare di Expo “madre di tutte le leggende metropolitane” che delizia e sgomenta i produttori dell’immaginario collettivo, e sappiamo bene che quando si entra nel recinto di Rho ci si trova direttamente nell’epica, quindi la cronaca minuta assurge al rango della Storia e ci consente licenze altrimenti improponibili.

Non vogliamo e non possiamo sottrarci al tentativo di argomentare, pur con la modestia dei nostri mezzi, sul “Fatto” perchè anche noi (come tutta la stampa specializzata) siamo rimasti moderatamente colpiti dagli esiti del più importante dei concorsi simbolici possibili: il Padiglione Italia. Il Luogo Matrice del paese ospitante, il Ventre plastico della Nazione, ha lasciato quasi tutti i commentatori perplessi, tiepide le poche reazioni.

Concorso destinato a gruppi con fatturati milionari (non ne comprendiamo il recondito motivo rispetto all’auspicata capacità di produrre buona architettura), e dunque rivolto a quanti, e sono poche decine nel paese, potevano e possono garantire solidità operativa spesso rinunciando a velleitarismi estetizzanti così difficili da digerire e ancor più da giudicare.

Per altro un concept-dogma doveva accompagnare docilmente ogni potenziale candidato a una risoluzione scolastica, e qualche volta accademica del tema: un cubo, una piazza coperta, un bel ristorante sul tetto. Vivaio Italia e sai che bei giochi di parole tra Colture e Culture. Missione compiuta e con poca fatica i progetti hanno seguito la traccia imposta dal bando senza porsi velleità palingenetiche, senza sconfinare oltre la rigidità ortogonale dei tracciati voluti dall’Ente Supremo.

È nella sua irrappresentabilità concettuale del tema che si sviluppa tutta la contraddizione della sequenza dei vincoli imposti e purtroppo accettati supinamente da tutti. Il risultato oltre alla inevitabile prevedibilità diffusa (sia pure con alcuni spunti interessanti) esprime una impressionante omogeneità nelle linee e nei tracciati espressivi che in alcuni casi potrebbe trasformarsi in una intercambiabilità di render, uno scenario indifferenziato di consuetudini, un magma omogeneo di certezze. Difficile riconoscere autori (poco conosciuti) e ricerca innovativa (poco conosciuta).

Ha vinto “l’albero della vita” e devo dire che non riesco a trovare molti collegamenti col controverso e immaginifico film di Malick, se questa è l’ispirazione oppure con i paesaggi italiani, le piazze, i materiali oppure i colori, o forse le forme? Il nido ecologico? Una zattera sostenibile? Nelle forme renderizzate ambientate in un’atmosfera esasperata e cupa, si rivedono palesemente troppi progetti precedenti, vincenti o perdenti del rutilante scenario mondiale delle competizioni: c’è tutta Internazionale Concorsuale Unita.

L’omogeneità anche noiosa di molte delle proposte rende complessa o inutile l’azione di approfondimento aggravata per l’imprevista assenza delle stelle (Benedetta Tagliabue esclusa) che denota una scarsa propensione all’azzardo delle “griffe” di successo, l’incapacità di mettersi veramente in gioco, o forse è solo il reale interesse che i grandi nomi rivolgono a questa manifestazione.

Non ha vinto la solita archi-star, non ha vinto un emergente, ha vinto la solida capacità professionale, ha vinto il mestiere. Ha vinto una modalità operativa e manageriale, ha vinto chi è stato capace di rassicurare come hanno cercato di fare quasi tutti i partecipanti: un appello all’ordine condiviso senza discussioni, un campionario di retoriche visioni, coerenti ma senza slancio.

E in tutti i progetti questa concretezza si respira, potrebbe essere, tranne per una decina di progetti francamente e normalmente improponibili, una nuova scuola improntata dalle necessità al tempo della grande crisi, sulla normalità delle consuetudini formali dettate dai vincoli funzionali e dalla rigidità programmatica.

Questa diffusa omogeneità delle proposte, questa tranquillità del gesto creativo sembra essere ben accettata dai concorrenti come se la prevedibilità potesse scongiurare l’irrappresentabilità dei tracciati concettuali che il contenitore dovrà comunque tentare di rappresentare.

Compito di altri certo, coniugare Fellini e i Vanzina, Bruno Maderna e Puccini, Fontana e De Chirico, Baricco e Tabucchi e forse chissà Gregotti e Portoghesi, insomma dare una casa adeguata all’infinita sequenza di ossimori di cui è composta la caleidoscopica e camaleontica identità del paese.

Proprio per questo nell’insostenibile prevedibilità del Padiglione (e delle due varianti) troviamo ancora una volta materiali emblematici sufficienti per considerarla l’ennesima occasione perduta, tristemente in linea col più ampio progetto perennemente rinviato per rinnovare il paese.

Come può l’architettura produrre eresie, se l’antropologia della nazione si avviluppa sempre di più su qualsiasi espressione di pavidità? Tutto perfettamente in linea dunque ma eterni sognatori quali siamo, ci aspettavamo una nuova Arca capace di condurci verso la ricerca di identità difficilmente immaginabili.

L’architettura non ha retto al peso della drammatica congiuntura professionale, si è accontentata di proporre un grande e sereno stand da riempire di nuove retoriche nazionali, o forse capace di rappresentare soltanto la precarietà culturale in cui si dibatte da troppo tempo.

L’Expo, in fondo è lo specchio della capacità di produrre modelli conformi alla società che lo ha fermamente voluto ma mai compiutamente digerito e l’architettura vincente o perdente di questo concorso si è perfettamente adeguata al programma. Comunque vada sarà un successo.

 

Maurizo De Caro

 



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