17 aprile 2013

CONSUMATORI SENZA CONSUMI: VERSO UNA SOCIETÀ GASSOSA?


“La grande frattura che separa la sindrome culturale consumistica dalla precedente sindrome produttivistica (…) sembra essere il rovesciamento dei valori legati rispettivamente alla durata e alla transitorietà”. La nota tesi di Bauman circa la transizione da una “società solida dei produttori” a una altra “liquida dei consumatori” può essere utilizzata per analizzare il fenomeno, tanto vituperato quanto irrisolto, del “consumo di suolo”? Proviamo, tenuto conto che l’oggetto di tale particolare consumismo – ancor più degli altri elementi apprezzati come “beni comuni” (energie rinnovabili e ciclo dell’acqua) – è un unico, non rigenerabile in tempi storici. Il sottile stato di humus che consente la coltura agricola e la vegetazione arborea, che reintegra il quarto elemento empedocleo (l’aria), se consumato è anche distrutto irrimediabilmente per più generazioni.

Il problema è tanto più serio nella nostra realtà, padana e lombarda, che negli ultimi due/tre decenni ha vissuto una incredibile fase di “consumo compulsivo”, di assalto sfrenato al vantaggio reale o presunto che qualsiasi volume edificato o edificabile detiene rispetto a qualsiasi area nuda, a dispetto di ogni visione e disegno d’insieme della realtà urbano-rurale. Sino a che l’intreccio perverso con un sistema economico-finanziario drogato da un’incontrollata avidità – fuori dalle regole, comprese quelle del mercato – ha provocato l’overdose: una quantità di residenze, capannoni e strutture commerciali invendute e inutilizzate. La “mano invisibile” si è incaricata di mollare un solenne ceffone ai fautori del mercato senza regole. Una classica “crisi di sovrapproduzione” ha squilibrato pesantemente l’offerta inceppando il tradizionale motore della “crescita”.

Certamente tale esito è stato consentito dalle carenze della legislazione vigente in materia che, segnatamente con la legge regionale 12 del 2005, in Lombardia ha sancito una sostanziale deregulation, per altro già ben avviata dalle debolezze normative precedenti. Alla base di tale legge sta una interpretazione distorta – ma egemone in assenza di pensiero alternativo – del concetto di “sussidiarietà”. Tale espressione infatti anziché nel significato originario di “cessione di sovranità”, a partire dal basso ma diretta anche verso l’alto mediante un modello modulare (o per semplificare una “economia di scala”) è stata ridotta nel suo contrario: ciascuno è “padrone in casa propria”. Mentre l’Europa chiedeva e otteneva dagli Stati nazionali, proprio in base al principio di sussidiarietà, il potere di battere moneta, il potere di edificare (ossia coniare un’impropria zecca, come ben descritto da Mario De Gaspari su queste colonne) veniva tutto delegato ai singoli Comuni, saltando praticamente tutti gli enti intermedi! E dentro i Comuni lo “jus aedificandi” veniva riconsegnato ai singoli proprietari – anche attraverso meccanismi apparentemente egualitari quali la “perequazione” – annullando la separazione che aveva invece presieduto la legislazione fino agli anni ’70 (legge Bucalossi del 1977 e altre; ma al “governo ombra” c’era il PCI).

Tuttavia il cambiamento intervenuto da allora nel quadro legislativo non è la causa bensì l’effetto di un mutamento sociale e culturale profondo: vedi citazione in incipit (*). In particolare la mentalità e la cultura della classe politica e amministrativa è cambiata radicalmente o addirittura invertita. Il ruolo dei partiti e delle istituzioni locali si è spesso rovesciato dalla funzione di “guardie” nei confronti degli interessi privati in quella di complici; e se all’epoca delle “mani sulla città” di Rosi la maggioranza laurina si voleva mangiare le aree con un improprio piano regolatore, subito scattava una combattiva opposizione a supplire il ruolo di guardia nella lotta alla speculazione. Oggi invece è sempre più difficile distinguere dal colore dell’amministrazione la qualità urbana del comune amministrato. Gli assessori all’urbanistica sono stati soppiantati dagli assessorati al territorio. Ma al territorio per che fare? Per difenderlo o assistere/contribuire allo scempio in cambio, se non di peggio, del piatto di lenticchie di pochi “oneri” non più tanto “di urbanizzazione”?

Lo stesso PGT milanese, superficialmente annoverato tra i successi della nuova Amministrazione, a un’analisi attenta dei documenti pubblicati rivela una sostanziale acquiescenza alle consuete intenzioni del “partito del mattone”, per quanto (escluse poche “isole” privilegiate guarda caso dalla concentrazione di infrastrutture pubbliche!) questi può ora fare a meno del vecchio parallelepipedo di argilla, contando ambiguamente su fittizie poste nei bilanci di imprese decotte o su dubbie ipoteche bancarie. O peggio sulle disponibilità di organizzazioni occulte.

Se poi sommiamo tale strumento agli oltre millecinquecento PGT approvati o approvabili nella Regione otteniamo quello che Ugo Targetti ha denunciato, sempre su queste colonne, quale effetto della Legge 12 “iperregolamentata nelle procedure e anarchica negli esiti”. Certamente tale legge va cambiata, come puntualmente chiesto dalla petizione di Eddyburg, così come è urgente riformulare i poteri degli enti intermedi (Città Metropolitana e nuove Province), ma la prima riforma riguarda le teste di politici e amministratori regionali e locali. Possibilmente prima di evaporare, nel preoccupante vuoto di cultura di governo della cosa pubblica, verso una imprevedibile “società gassosa”!

 

Valentino Ballabio

 

(*) Z. Bauman, “Consumo dunque sono“, Laterza 2007, p. 107

 



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