9 aprile 2013

I VAFFA DI GRILLO LE INNOVAZIONI DEL LINGUAGGIO


I vaffa di Grillo, le sue parolacce, l’ultima uscita di Battiato, la cosiddetta volgarità diffusa nel linguaggio della politica sembra suscitare molta costernazione. In parte comprensibile, in parte no. È indubbio che da figure istituzionali ci si attende un linguaggio più pettinato, più contenuto, più appropriato. L’insulto, l’insulto feroce, come certamente è quello di Grillo talora, sembra poco consono a una dialettica della mediazione, a una possibilità di dialogo, sale di ogni trattamento democratico delle controversie. Ciò appare indiscutibile.

E tuttavia credo occorra osservare il fenomeno con uno sguardo all’altezza, o forse alla bassezza del tempo. O comunque prestando attenzione al progressivo dissolversi di frontiere, di barriere, di limiti sotto molti punti di vista. L’ingresso di personaggi eterocliti nel mondo politico è un fatto ormai avviato da tempo, e forse, almeno in una certa misura, così è sempre stato. Le famose personalità che provengono dalla società civile, sono esponenti di contesti anche culturalmente molto diversificati. Attori, cantanti, registi, le cosiddette “star” di quella che ormai dovremmo ben conoscere come la “società dello spettacolo”, hanno da tempo fatto il loro ingresso anche nei luoghi paludati della politica.

Quando Ronald Reagan diventò presidente degli Stati Uniti, la cosa fece un certo rumore. Era un attore, un attore hollywoodiano, anche abbastanza scadente, che diventava l’uomo più potente del mondo. Così quando poi Schwarzenegger diventò governatore della California, ci furono soprattutto sarcasmi ma meno stupore. Oggi è un comico il sindaco di Rejkiavic, peraltro una persona di straordinaria sagacia intellettuale. La politica, come sappiamo tutti bene, è diventata, anche in virtù proprio della sua americanizzazione, del potere smisurato dei media, un luogo fondamentale dello “spettacolo”. E, se è vero come è vero, che nello spettacolo vince chi fa più audience, chi fa più rumore, non credo ci sia da stupirsi se la maschera, la finzione, la rappresentazione, sub specie televisiva, soprattutto, sia diventata preminente nel selezionare i suoi pretendenti.

Sotto un tale profilo l’imprenditore Berlusconi è stato uno straordinario sfruttatore dello spettacolo, proprio in quanto capace di maneggiare sapientemente l’entertainement. Dunque è solo per miracolo che fenomeni come quello di Grillo, che tuttavia ha specificità che lo distinguono, per molti versi, da Berlusconi, siano rimasti tutto sommato limitati. Non dimentichiamoci che una larga parte della classe politica del Partito di Berlusconi, è stata arruolata anche nel mondo dello spettacolo e della televisione. A sinistra la cosa è sempre stata guardata con molto sospetto. In parte anche con ragione perché, a onor del vero, ciò che dello spettacolo in senso stretto è penetrato, da destra, nell’arena politica, dalle Carlucci alla Zanicchi alle Carfagna, non ha particolarmente recato beneficio alla qualità del contesto. A sinistra gli uomini di spettacolo sono sempre stati piuttosto “onorevoli”, da Paoli allo stesso Battiato ma è chiaro che a un certo punto tutto ciò ha prodotto un cortocircuito.

Un cortocircuito che si riverbera a molti livelli ma che è particolarmente sensibile sul piano delle mutazioni del linguaggio. Molti fenomeni si sono verificati in questi decenni, in virtù di questa commistione, dall’ingresso in Parlamento di Cicciolina, o più recentemente di Vladimir Luxuria, fino all’avvento di Bossi, che certamente ha introdotto, e non tanto dal mondo dello spettacolo ma con modalità spettacolari, il linguaggio volgare, anche nelle sue forme più tipicamente vernacole, nella politica. In questo caso nell’intento di fare aggio su componenti funzionale del linguaggio volgare, come la corposità materiale, il radicamento popolare, il potere emozionale.

Ma credo occorra spostarsi, per cogliere l’ampiezza del fenomeno, ancora più indietro. La fine o comunque la lenta erosione della gerarchia che ha sempre visto i linguaggi paludati e alti privilegiati, sotto il profilo morale e estetico, rispetto a quelli bassi, è in atto da molto tempo, e in molti ambiti. Così nell’arte, è stato Duchamp, nella maniera più clamorosa, con il suo famosissimo orinatoio, a decretare o almeno annunciare la fine di un a tale gerarchia. Oggi il gesto di Duchamp si riverbera costantemente in un mondo dell’arte dove, dalla cacca in scatola di Manzoni alle performance più sanguinarie ai gesti più immondi, carichi di corporeità e di materialità, obiettivamente una distinzione tra linguaggi alti e bassi appare improponibile. E ritengo, almeno in una certa misura, assecondando una deriva anche democratica del fenomeno artistico (non fosse che poi il sistema dell’arte continua ad assorbirla per farne un fenomeno di élite). Lo stesso è accaduto nella letteratura, nella musica, nella cultura in genere. Il linguaggio asseconda l’epoca, è il suo riflesso più immediato. Questo è il mondo dell’indifferenziazione, oppure, se si preferisce, di una differenziazione plurale, molteplice, disseminativa, non più misurabile sull’asse basso-alto ma su quello, ben più fluido e imprendibile, dei miliardi di colori dei moderni schermi di computer.

Grillo ha importato, in un ambiente saturo di fenomeni estremamente variegati, con tutta la forza della sua notorietà e della sua energia attoriale, il registro comico. Il registro comico è sempre stato e sempre sarà grasso, saturo di parolacce, come sappiamo da Aristofane a noi. Grillo ha solo approfittato del fatto che il mondo dello spettacolo, o della politica, che è la stessa cosa, mondo totalmente degerarchizzato, mescola incessantemente i linguaggi, come del resto fa anche il cinema, anche in opere importanti. E ne ha approfittato sapendo bene che questo lo avrebbe molto avvicinato ai codici linguistici popolari.

Lagnarsi per le parolacce di Grillo appare francamente vano. Certo, è del tutto legittimo difendere stili e registri di comunicazione anacronistici, magari nella speranza che le torsioni del tempo producano reversioni e sorprese. E di solito, peraltro, è proprio così. È probabile che presto un’età del contenimento e del limite torni a farsi spazio. Che la noia per le metafore popolaresche di Bersani, per le barzellette corrive di Berlusconi, per i lazzi feroci di Grillo induca a nuovi e più politi costumi. E che, al loro posto, ritorni l’esigenza di distinguere, separare, decontaminare. È un fatto di cui si avvertono segnali un po’ dappertutto. La voglia di restituire autorevolezza, o addirittura autorità, all’autorità, che si incarni essa in funzionario pubblico, in politico, in insegnante o in magistrato, sembra crescere. La psicologia dà manforte, restituendo valore all’esigenza di castrazione simbolica, alla necessità di Leggi, norme, di nuove forme di frustrazione e di punizione. Ne sono spia autorevoli psicogiornalisti come anche trasmissioni “basse” come SOS Tata.

Vedremo. Per quanto mi riguarda credo piuttosto che la prossima vera problematica frontiera, sul fronte dei linguaggi, al di là del grande circo mediatico con la sua fiera di espressioni multiformi che oggi incontriamo ovunque, dal Parlamento alla scuola alla metropolitana, sarà il mondo multietnico, quello sì autenticamente eterogeneo, colorato, problematico, sempre che la globalizzazione non lo faccia a pezzetti prima che possa presentificarsi nelle sue infinite e sorprendenti sfumature. Ed è con la novità di quel mondo che occorrerà presto fare i conti, imparando a recepirne non solo le differenti espressioni linguistiche ma soprattutto le forme legate alle matrici culturali, ai simboli, agli archetipi, alle tradizioni.

 

Paolo Mottana

 



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