27 marzo 2013

UMBERTO AMBROSOLI: UNO VALE UNO


Nel valutare se alle ultime regionali avevamo il candidato “giusto” o meno, uno degli sport preferiti della sinistra quando perde, occorrerebbe tener conto che l’handicap di tre anni fa era di 23 punti percentuali, un abisso di oltre un milione duecentomila voti che avremmo dovuto coprire grazie agli errori dei nostri avversari e alle caratteristiche del nostro candidato Umberto Ambrosoli, che effettivamente tra voto alla Camera e voto Regionale ha recuperato quasi mezzo milione di consensi.

L’abisso era grande e profondo e per superarlo avremmo dovuto fare come a Milano, non commettere nemmeno un errore perché non c’era margine di recupero. Purtroppo non è andata così.

Ambrosoli ha commesso alcuni errori che hanno finito per pesare sul risultato finale, anche se nessuno è stato a mio avviso determinante. Ha cercato di coprire il suo punto debole di partenza, la scarsa esperienza, con il suo essere non solo persona onesta e perbene, ma anche “nuova”. Il suo programma politico molte volte era la contrapposizione tra guardie e ladri o tra nuovo e vecchio, ripercorrendo anche nei riferimenti personali e culturali le fallimentari campagne elettorali dal 1994 a oggi, con un’ispirazione censoria di fondo che finiva per dividere e non per includere.

Un passo indietro rispetto alla campagna elettorale del 2011, nella quale la distinzione vincente è stata tra la buona politica e la vecchia politica, non certo fra nuovo e vecchio. E nella quale Giuliano Pisapia non ha mai avuto bisogno di ricordare quanto egli fosse onesto e diverso perché questo fatto era ben visibile e impresso nella sua storia personale, nel suo modo di essere e di rapportarsi con i cittadini, mentre tutta la campagna elettorale prima e il sistema di governo poi sono stati ispirati al principio gandhiano “Sii tu nel tuo agire il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.

Un secondo errore, probabilmente figlio del primo, è stato quello di non utilizzare i punti di forza esistenti, a cominciare dalle esperienze vincenti di Milano e delle altre amministrazioni lombarde, dove l’alleanza civica tra partiti e movimenti e associazioni (non un generico e astratto civismo) hanno agito di concerto e su un piano di parità. In alcune occasioni si è perfino assistito alla ricerca della diversità rispetto a queste esperienze, andando ben oltre l’oggettiva esistenza di condizioni diverse tra Milano e resto del territorio lombardo e finendo così per marcare un’inutile distanza che ha impedito il travaso di un entusiasmo non ancora sopito che sarebbe stato un buon carburante per la difficile campagna regionale.

Un’organizzazione della campagna elettorale che non possiamo definire da manuale e le numerose incertezze sulle liste di sostegno, a partire dall’incomprensibile esclusione della lista dei Radicali dalla coalizione e la costante e mai risolta oscillazione tra il volere una “lista del Presidente” composta di persone di fiducia personale e il cercare di costituire una presenza politica organizzata accanto ai partiti, hanno fatto il resto.

Il non aver potuto o saputo organizzare un’efficace regia politica propria ha portato al paradosso di un candidato che aveva avuto il suo passo d’ingresso eccessivamente venato di spirito anti-Pd e con problemi nel catalizzare il consenso a sinistra e che ha finito per appoggiarsi integralmente sull’organizzazione del Pd, a riassorbire integralmente il dissenso a sinistra subendo però il contraccolpo sull’area opposta, dove la sua figura di candidato indipendente ha finito per non essere più percepita come tale. Soprattutto non è emersa con chiarezza alcuna proposta originale, le parole d’ordine sono state quelle sempre diluite e annacquate e spesso incomprensibili del Pd: niente sul federalismo e sulla risposta alla richiesta di autonomia istituzionale e fiscale, limitandosi a bollare come sciocchezze della Lega sul 75 % di tasse; niente di concreto sulle richieste delle Pmi, che costituiscono il “core business” del collegio Lombardia 2, dove, infatti, la sconfitta è stata particolarmente sonora, poco di concreto, almeno come percezione diffusa, sulla sanità, oltre ad un’urlata necessità di “cambiamento” che, esattamente come si era detto nei briefing d’inizio campagna elettorale, non era affatto tra le priorità degli elettori lombardi.

Ma il saldo politico dell’azione del candidato Umberto Ambrosoli resta ampiamente positivo, come dimostrano i consensi recuperati rispetto al centrosinistra nazionale, la vittoria in tutte le realtà urbane, la riduzione della forbice a meno di cinque punti percentuali, trecentomila voti, praticamente un respiro rispetto alle voragini delle ultime consultazioni. A determinare la sconfitta è stato il mezzo milione di voti passato da Berlusconi a Grillo senza fermarsi su Bersani, ma anzi accompagnato da altri 2-300 mila voti del centrosinistra persi sul piano nazionale. Ambrosoli è riuscito a essere molto più credibile dello schieramento che l’ha espresso, ma non abbastanza.

Sono stato tra i più convinti sostenitori della candidatura dell’avvocato Ambrosoli e lo sarei nuovamente ritornando nelle condizioni del mese di dicembre, anche una volta esaminati i suoi limiti oggettivi, rivelatesi come spesso accade più marcati del previsto alla verifica sul campo. Questo non significa non prendere atto che l’ipotesi politica che avevamo sostenuto in tanti, l’estensione dell’influenza della “esperienza arancione ” di Milano alla Regione Lombardia e al livello nazionale, abbia subito una brusca battuta d’arresto. Le condizioni odierne sono oggettivamente molto diverse e richiedono una risposta ancora diversa. I tempi della politica sono sempre più veloci e “bruciano” e consumano talmente i protagonisti e il fatto di essere stato tra i sostenitori della battaglia vincente del 2011 non rende nessuno immune da questo rischio.

Chiunque abbia avuto e abbia un ruolo che una volta si sarebbe detto di “dirigente politico” del movimento o del partito non importa, deve prendersi come minimo una pausa di riflessione e ammettere che l’onore e l’onere della proposta è passato di mano e il passo in avanti di nuovi e diversi protagonisti è una necessità. Penso che per molti di noi, a partire da me stesso, sia opportuno un temporaneo o definitivo cambio di ruolo politico, prendendo atto che l’ipotesi sostenuta non ha retto alla prova elettorale.

Questo non può ovviamente non valere anche per Umberto Ambrosoli se, come pare, intende continuare lodevolmente nel suo impegno politico. Gli consiglierei di farsi rapidamente una ragione del fatto che sebbene con tutti gli onori possibili ha perso: in un’elezione diretta questo conta, non il fatto di aver perso di poco o tanto, di non essersi fatto capire e via inutilmente giustificandosi.

Dal momento che mi pare sia tra i molti affascinati dal vecchio nuovismo grillino, gli consiglierei di ricordarsi che la campagna è finita, prendendo sul serio per prima cosa lo slogan più in voga del momento: “uno vale uno”. E sommare le unità, in politica, non è un’operazione matematica.

 

 

Franco D’Alfonso



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