12 febbraio 2013

LA COSTITUZIONE E I VERDI, RIPARTIRE DA ADRIANO OLIVETTI


Che l’Italia abbia avuto livelli eccezionali di sviluppo, nel campo della letteratura (Dante, Petrarca), della scienza (Leonardo, Galileo), dell’arte (da Giotto a Leonardo a Michelangelo …) e del pensiero politico (Machiavelli), è ormai un topos interpretativo indiscusso.

Due altri percorsi, invece, hanno visto il nostro Paese mostrare deficit e ritardi vistosi: la costruzione di uno stato unitario (avvenuta quasi quattrocento anni dopo le realizzazioni di Spagna, Francia, Inghilterra) e l’impianto e la diffusione di una cultura del dialogo e del rispetto per la natura (nonostante Francesco, Bonaventura, Alberti, Leonardo, Foscolo, Leopardi, Pirandello …).

Questa debolezza ha fatto sì che due formazioni culturali fossero egemoni nella stesura della nostra Carta Costituzionale: la cultura marxista (socialista e comunista), per cui centrale era la dignità del lavoro e, al massimo, la natura andava posta nella categoria di risorsa utile allo sviluppo dell’uomo “liberato”; la cultura cattolica, che aveva perso nella modernità la trama di dignità del cosmo / natura / creazione, non più colto come realtà / dono chiamato a partecipare al grandioso disegno trinitario cristocentrico (Incarnazione, Resurrezione) e pneumatologico (natura vivificata dallo Spirito Santo).

La Costituzione che ne è scaturita – di certo bellissima – si è purtroppo rivelata povera di riferimenti alla dignità del mondo naturale e alla conseguente etica di responsabilità verso lo stesso (la si ponga a confronto, ad esempio, con l’attuale Costituzione dell’Ecuador). L’esito di questa perdita è stato un antropocentrismo rigido per cui la presenza dell’uomo era declinabile nel senso di un programma cartesiano: fare dell’uomo “il padrone e possessore del mondo”. Un teo-antropocentrismo, tra l’altro, egemone sia nel Cattolicesimo italiano sia, anche, nella Chiesa mondiale.

E così, mentre nel Concilio Vaticano II (1962-65) non sono presenti i temi di una nuova attenzione al dialogo con la Creazione / natura e di una “nuova alleanza” con essa, nello stesso periodo nella cultura americana – e anche nella politica americana: basti pensare al presidente John Kennedy, a suo fratello Bob, al giovanissimo Al Gore – per la prima volta nella storia viene portata allo scoperto, con l’adeguata autorevolezza scientifica, la “questione ambientale”. Siamo nel 1962 quando Rachel Carson, dalle pagine del suo libro Primavera silenziosa, ci ammonisce: «Nelle campagne americane l’uso senza criterio di pesticidi sta diffondendo deserto e morte, la “primavera” è diventata “silenziosa”».

L’Italia, invece, arriva tardi e male all’incontro critico con la modernità e con i paradigmi epistemologici ed etici che ne hanno costituito il fondamento e che altrove hanno trovato, già nel Novecento, una irreversibile revisione. La “questione ambientale” da noi si fa strada col disastro di Seveso (1976). È a partire da lì che, oltre la lodevole ma elitaria presenza di Italia Nostra, WWF e poi di Lega Ambiente, si costituiscono piattaforme mobilitanti di massa e, quindi, i “movimenti” ambientalisti. Ma privi di quel grande respiro teologico, filosofico e scientifico che in Germania o negli USA ha preparato la costituzione di classi dirigenti e movimenti “verdi”.

In Italia, insomma, la questione ambientale si caratterizza non per l’esigenza di “bellezza” (in senso spirituale, mentale, etico o in senso ontologico-naturale: la bellezza della natura) ma sulla spinta della “paura” (Jonas). Si prenda, all’opposto, l’esempio degli Stati Uniti. Lì troviamo, già nel corso dell’Ottocento, una sequela di pensiero e azione ispirati da subito dal tema della “bellezza”: Emerson (l’essenza, come è stato definito, dell’identità dell’umanesimo americano post-antropocentrico), Thoreau, Marsh, Whitman, Muir.

Ed è ancora lì che, agli inizi del Novecento, un Presidente “conservatore”, Theodor Roosevelt, sostiene il sorgere e lo sviluppo (con tutti i limiti che per ora tralasciamo) di un progetto nazionale di tutela dell’ambiente e conservazione delle risorse. Lì, nel secondo dopoguerra, trova ascolto la lezione del primato dell’etica, e dell’etica vegetariana, di Albert Einstein, si diffonde il cristocentrismo cosmico del gesuita e scienziato evoluzionista Pierre Teilhard de Chardin, come pure si diffondono il taoismo e il buddhismo zen con D.T. Suzuki ed è per molti fonte di ispirazione la mistica aperta all’amore per il creato del monaco cistercense Thomas Merton.

È proprio dietro alla pressione di un filone culturale eccezionale che – anche come risposta alle questioni originate dall’emergere di quelli che pochi anni dopo verranno individuati come “I limiti dello sviluppo” (Club di Roma, 1972) – si impongono: a) la nascita della questione ambientale (R. Carson, Primavera silenziosa, 1962); b) il sorgere dell'”era dell’ecologia” (D. Worster), c) la nascita della bioetica (la cui definizione iniziale era “scienza della sopravvivenza del Pianeta”); d) L’istituzione della “Giornata mondiale della Terra” (con Richard Nixon, presidente USA, 1970); e) il cammino verso la rappresentanza istituzionale dei temi ambientali (il presidente John Kennedy che interviene a difendere la Carson, gli interventi di Bob Kennedy, l’inizio del percorso ambientalista dell’adolescente Al Gore e, successivamente, la sua vicepresidenza. Fino ad arrivare, oggi, a Barack Obama).

Una sottolineatura: venti anni fa, nel 1992, il vice Presidente degli Stati Uniti Al Gore mostra al mondo che un altissimo livello istituzionale può dedicare al progetto di “Un nuovo ambientalismo dello spirito” un capitolo del suo libro “La Terra in bilico“: un progetto in cui scienza, tecnica, etica, religioni (in senso ecumenico, perché il cristiano Al Gore chiama a raccolta le religioni degli indigeni, il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Induismo, il Buddhismo, l’Islamismo) devono trovare un alto momento di sintesi per concorrere alla salvezza del Pianeta.

In conclusione, l’Italia manca ancora oggi di questi percorsi possibili: a) la formazione di un esteso fronte culturale post-antropocentrico e post-meccanicista; b) la formazione di classi dirigenti adeguate, alla luce dei nuovi principi e valori epistemici (necessitano, tutti insieme, un Cavour, un asse Manzoni-Gioberti, un Gramsci!); c) la formazione di un nuovo blocco sociale-culturale che sia, gramscianamente, all’altezza delle nuove sensibilità; d) la selezione di un ceto politico che sappia uscire, sui temi trattati, dall’arretratezza culturale ed etica che caratterizza quello attuale.

Un unica eccezione, per il nostro Paese: quel gigante che è stato Adriano Olivetti, il quale era ben dentro al contesto di sensibilità, valori, pratiche qui evocato. Ripartiamo allora da lui, ritraducendo il suo messaggio per l’oggi?

 

Luciano Valle



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