27 aprile 2009

ALCUNE COSTANTI GENETICHE DELLO “STILE MILANESE”


[Abbiamo visto che] a Milano, come dappertutto, si sono susseguite diverse città del presente, ciascuna delle quali ha interferito con quelle dei rispettivi passati e ha alterato la loro configurazione e il loro modo di funzionare. Le forme e la struttura delle preesistenze sono le materie prime di un processo di trasformazione che avviene sia attraverso una miriade di modifiche minute apportate giorno dopo giorno, sia in seguito a interventi di ristrutturazione urbana alla grande che invece sono episodici (ogni generazione ha fatto i suoi grandi progetti urbani).

Nulla di straordinario, sono fenomeni che vanno ascritti al metabolismo delle compagini sociali, economiche e politiche che producono tutte le città. [Gli esempi che ho portato rivelano che] da noi, però, tale metabolismo ha alcune caratteristiche piuttosto particolari le quali non solo improntano il volto contemporaneo di Milano, ma hanno improntato anche quelli che via via abbiamo voluto darci nel corso degli ultimi due secoli. Queste caratteristiche riguardano a) il modo peculiare in cui si concepisce e si gestisce l’interferenza tra la città che c’è e quella che si desidera per il futuro, e b) la lunga persistenza nel tempo degli assunti culturali e tecnici adottati in questa materia. [Da essi emerge chiaramente] che a Milano, nei meccanismi di costruzione della forma urbana che coinvolgono la città del passato, sono presenti alcune costanti che fanno pensare alla presenza di un vero e proprio patrimonio genetico della milanesità architettonica e urbanistica, rimasto immutato nel corso di molte generazioni.

La prima è il rispetto del ferreo e inamovibile principio del monocentrismo, mai smentito dai fatti concreti. Questa scelta viscerale rende vana ogni altra ipotesi di assetti spaziali e funzionali più complessi, ricchi, articolati, efficaci e stimolanti, e induce i milanesi a vanificare qualsiasi intento venga adombrato in tal senso. Il monocentrismo milanese non solo è rovinoso per la città del passato, la quale viene stritolata sotto il peso della “macchia d’olio” che le si dilata attorno, ma anche perché il suo automatismo ha fatto sempre apparire inutile una meditata strategia – o meglio una politica – della forma urbana, politica e strategia che sono tuttora negate pur in un frangente specialissimo e irripetibile come questo della Expo alle porte.

Correlata alla prima costante c’è la seconda, che è la particolare inclinazione di Milano a concentrarsi su singoli progetti urbani non connessi tra loro in un disegno unitario della città desiderata, o correlati ex post e quindi con grande difficoltà ed esiti aleatori.

All’interno di questo imprinting di base ce ne sono altri per così dire subordinati, come per esempio l’autoreferenzialità e quindi la non adattività di queste iniziative, il distacco fra quanto si dichiara di voler fare con essi e quanto si realizza, la frequenza con cui avviene che le cose prefigurate in origine siano travisate in corso d’opera o rimangano incompiute. Costante è pure l’indifferenza circa la pubblica utilità di tali interventi, i loro effetti nei rispettivi contesti, i loro reali costi e benefici, la loro qualità in dimensioni che non siano soltanto quelle commerciali, finanziarie e di propaganda politica. E molto milanese è il conseguente divario tra le grandi dichiarazioni e la modesta capacità di attuarle concretamente, i cui frutti sono la regolare parzialità delle realizzazioni e il prolificare sistematico e inevitabile di fossili o ruderi precoci, con i quali la città è tollerantissima. Altrettanto tipicamente milanesi, infine, sono la regolare e scontata strumentalizzazione di quel tanto di cultura architettonica di cui i grandi progetti urbani si fanno portatori, da parte di promoters che in genere non rappresentano la componente culturalmente o civilmente più “avanzata” del corpo sociale, né quella più sensibile e orgogliosa della storia urbana cittadina.

In una terza costante convergono da un lato la veste tendenzialmente esibizionista dell’architettura con cui la società milanese che conta ama rappresentare la sua opulenza e il suo lusso, e dall’altro la parallela indifferenza per la qualità dell’edilizia corrente, alla quale è consentita una disordinata mediocrità e che è affidata all’indirizzo e al controllo di figure istituzionali che col passare del tempo tendono a diventare sempre più grigie e anonime. Queste inclinazioni non hanno effetti positivi sulla qualità della forma urbana, quella di cui – per intenderci – duecento anni fa si occupava la Commissione d’Ornato, e di cui oggi non si occupa più nessuno.

La quarta costante significativa è la spregiudicatezza con la quale, nelle pratiche della costruzione materiale della città e del suo aspetto, le convenienze pubbliche e quelle private sono confuse in funzione di certi valori che – assumendo vesti via via più aggiornate – coltivano l’etica della rendita fondiaria, dello spirito affaristico, del successo economico, esaltano l’ideologia suprema del mercato, e cose del genere. Un solo esempio per mostrare come oggi il Comune sia inteso quale strumento degli interessi privati che lo governano, ai quali quelli generali della collettività vengono senz’altro subordinati: gli attuali piani per i parcheggi sotterranei, che ho nominato più volte e che sono in corso di un’esecuzione molto faticosa e controversa.

Il vero genius loci di Milano

La piccola Milano di centocinquanta anni fa aveva ancora, molto probabilmente, una sua tipica cifra morfologica, un garbato e unitario genius loci spaziale, che poi in parte è stato annacquato, in parte disarticolato dietro i volti delle diverse città del passato che sono succedute a quella di allora, in parte disperso al vento dal disinteresse e dalle distruzioni. (Osservando che – lasciando da parte Attila, i Goti, i Longobardi e Federico Barbarossa – le sole violenze fisiche subite da nemici esterni alla grande e alla piccola scala da Milano negli ultimi 800 anni sono state solo quelle causate dai Lancaster inglesi e dai B17 americani durante l’ultima guerra. Le altre se le è fatte tutte da sola).

Nella costruzione delle successive città del presente nessuno ha voluto trarre un supporto creativo dal DNA spirituale degli organismi delle preesistenze, sulle quali ci si sarebbe potuti innestare per ideare e costruire la città futura. L’esercizio costante di queste attitudini nei processi della morfogenesi urbana non può essere attribuito alla stupidità della gente, all’ignoranza, a un’indole rozza, irruente e incolta della città o alla sua distrazione per le cose del passato, rivolta com’è sempre al futuro, bensì a valutazioni e scelte ponderate e meditate, che sono sempre state compiute da uomini ritenuti seri, esperti, onorati e rispettati negli ambiti privati e pubblici, i migliori della migliore società. Scelte e valutazioni mai improvvisate o tenute celate, bensì dibattute a lungo, approfonditamente e di norma formalizzate in atti ufficiali di governo.

Sempre le stesse scelte. Chi le ha fatte, in concreto, chi le fa? Chi decide e produce la città, chi le imprime il proprio marchio genetico?

Dalla rassegna che ho presentato emerge una sola risposta: il dominus di Milano è un soggetto plurale, sempre lo stesso, appunto, e precisamente quello che ha ricevuto il suo nome – politicamente scorretto ma molto efficace – quando si rifletteva seriamente su queste cose, trenta-quaranta anni fa. Questo dominus è il cosiddetto “blocco edilizio”.

Il blocco edilizio milanese che tiene solidamente nelle mani il meccanismo dei processi morfogenetici della città è il solidissimo aggregato politico-economico – più o meno ampio a seconda delle circostanze, ma sempre molto compatto – nel quale convergono la grande proprietà immobiliare, la rendita fondiaria e la speculazione edilizia in generale, i cosiddetti developers del settore, le banche e il capitale finanziario che lo fiancheggiano, vi immettono energia e lo indirizzano, le imprese di costruzione con il loro indotto, le cooperative di abitazione e infine i tecnici progettisti e i funzionari municipali della partita, ciascuno con le rispettive strutture di formazione e le rispettive organizzazioni di categoria, e tutti dotati di una rappresentanza politica che invece è assai omogenea. Questa potente compagine di interessi è in azione da sei-sette generazioni senza alcuna mutazione. I soggetti sono sempre gli stessi. Al di là di mode architettoniche che invece sono effimere, restano uguali lo stile e il gusto, le logiche che ispirano le mosse e i loro risultati.

A mio avviso i cromosomi della milanesità edilizia e urbanistica risiedono proprio qui, nell’imbattibile blocco edilizio, e ne fanno il vero e proprio principio attivo che determina la figura della città. A Milano la sua presenza immanente promana da ogni luogo. Se le cose stanno così, come credo, non mi resta che chiudere con una metafora che non è affatto paradossale, e cioè che – benché non abbia nulla di poetico e non sia neppure uno spirito – il blocco edilizio rappresenta davvero il nostro più genuino e vitale genius loci.

Alberto Mioni

Estratto della parte finale di una relazione intitolata “Anche Milano ha un genius loci: l’imprinting della milanesità edilizia e urbanistica”, svolta al simposio internazionale Ciudad sobre ciudad: interferencias entre pasado y presente urbano en Europa, svoltosi a Salamanca, 12-14 novembre 2008.



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