18 dicembre 2012

musica


 

RAMIN BAHRAMI

Come avevamo annunciato, fra una recita e l’altra di quel Lohengrin di cui si è parlato tanto, lunedì 10 si è tenuto alla Scala l’atteso concerto annuale a favore del Museo Diocesano, questa volta dedicato alla memoria di Carlo Maria Martini, il compianto arcivescovo di Milano scomparso nell’agosto scorso. Sala strapiena, un pubblico molto attento e ben disposto – sicuramente interessato agli eventi culturali ancorché forse poco avvezzo ai concerti di musica classica – soprattutto un pianista ormai celebre con un programma succulento che vedeva in continua alternanza brani di Domenico Scarlatti (un’Aria e cinque Sonate) e di Johann Sebastian Bach (la quinta Suite francese e la seconda inglese, l’Aria variata e il Concerto italiano).

Bach e Scarlatti, come peraltro Händel, nascono entrambi nel 1685 e le loro composizioni appartengono dunque a uno stesso periodo, la prima metà del settecento (Bach muore a Lipsia nel 1750 – quando Haydn esce dall’adolescenza e Mozart non è ancora nato – mentre Scarlatti muore sette anni dopo a Madrid, quando Mozart ha appena un anno), ma appartengono a due mondi radicalmente diversi fra loro: intriso di luteranesimo il primo, vissuto in Turingia e Sassonia in cui due secoli prima aveva vissuto Lutero, e di cattolicesimo il secondo, vissuto fra le corti napoletane e spagnole. E sia l’uno che l’altro ha goduto fama di essere il più grande clavicembalista dell’epoca!

Oggi il pianista italo-iraniano Ramin Bahrami è considerato uno specialista di quei due giganti del clavicembalo e alcuni ricorderanno di averlo visto e ascoltato come ospite in una trasmissione di Gad Lerner durante la quale suonò, convincente e acclamato, il Concerto Italiano di Bach. Trentasei anni, ha vissuto e studiato a Milano grazie a una borsa di studio assegnatagli da una azienda italiana quando il suo paese cadde in mano agli integralisti e il padre fu imprigionato come oppositore. Ora vive in Germania e si presenta con un curriculum di grande spessore e una carriera fulminante che lo ha portato a suonare in tutto il mondo e a incidere gran parte dell’opera bachiana per tastiera.

Insomma la serata si presentava come una grandissima festa dello spirito, al più alto livello di interesse e di qualità, e non si è capito per quale oscuro maleficio (perché solo di questo può trattarsi) il concerto si è trasformato in una esibizione in chiave esclusivamente virtuosistica, spinta al punto da rendere le partiture irriconoscibili, omologate da una velocità vertiginosa, da togliere il respiro; tutto è stato eseguito “à-bout-de-souffle” eliminando anche quell’essenziale “riprender fiato” che precede i ritornelli, quando la musica “ritorna” su sé stessa e si ripete per invitare l’ascoltatore a concentrarsi e a memorizzarla. Una diabolica corsa per arrivare alla fine di ogni pezzo.

Ha sorpreso anche l’interpretazione algida, vorremmo dire robotica, dell’Andante del Concerto Italiano (Konzert nach italienischen Gusto!) che, posto a conclusione del programma, avrebbe dovuto rivelare e spiegare il sotterraneo e profondo rapporto che Bach coltivava con la musica italiana, innamorato della dolcezza e della cantabilità delle composizioni che gli arrivavano da Venezia, Bologna, Roma, Napoli, delle quali era attento studioso e interprete; ma Bahrami ce ne ha offerto una versione tutt’altro che “italiana”. Come nella “Aria variata alla maniera italiana” dove, in un turbine di musica senza stacchi e senza respiro, non si riusciva a percepire l’Aria né il succedersi delle sue variazioni.

Abbiamo già ricordato, nell’annuncio del concerto, che il maestro di Bahrami, Rattalino, disse di lui che “… scompone la musica di Bach e la ricompone in modi che risentono di un modello, Glenn Gould, senza veramente assomigliare al modello …“, ma l’altra sera quel modello è stato imitato e superato, purtroppo nel senso sbagliato. A differenza dei numerosi estimatori noi non abbiamo mai amato molto Glenn Gould a causa del meccanicismo che domina la sua lettura di Bach e della ossessione, ritmica e tecnica, che prevarica e sostituisce il contenuto musicale, ma non credevamo possibile che si potesse andare perfino oltre quella ossessione, dimenticando che compito dell’interprete non è quello di épater les bourgeois con la propria abilità, ma quello ben più impegnativo di svelare il pensiero musicale e penetrarne i più profondi significati.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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