7 novembre 2012

URAGANO SANDY. LA MELA SPACCATA IN DUE


“Hanno messo il piede nella pozzanghera sbagliata. Sono usciti per far passeggiare il cane nel momento sbagliato. Oppure hanno fatto esattamente quello che gli esperti gli avevano detto di fare – chiudersi ben bene dentro casa e aspettare che la furia passasse. La tempesta li ha beccati tutti.” In “Storm Death, Mistery, Fate, and Bad Timing”, NYTimes, Wed Oct.31st, p.1 by N.R. Kleinfield and Michael Powell. Tra le molte cose memorabili sentite e viste in queste poche ore questa del NYT coglie meglio di ogni altra la realtà esistenziale di un disastro come quello del Frankestorm Sandy.

Noi stiamo al sesto piano di una grande e solida casa newyorkese anni venti (1928), nella stessa strada, E 57th, dove è penzolata tutta notte la gru in bilico, la famosa Dangling Crane che è diventata un po’ il logo di Sandy: un uragano così forte da rovesciare indietro il braccio di questa lunghissima gru al 92 piano di un grattacielo in costruzione (la scena è su You Tube), esattamente come una buccia di banana rimasta appesa per il picciolo, costringendo all’evacuazione case, uffici e alberghi dei dintorni. Stessa strada, diversa avenue, ci siamo salvati, perché fortunatamente, la gru è alla 7a e noi alla 1a, altrimenti staremmo passando le nostre sudate vacanze in uno shelter perché nonostante le promesse fatte dal Sindaco il martedì mattina, la gru è ancora lì, anche se il braccio l’hanno tolto dopo una settimana di penzolamento.

È abbastanza straordinario trovarsi a vivere dove è passato l’urgano e sembra che invece sia arrivato il Carnevale: la mela di New York è aperta in due: più o meno dalla 42, e ancora più severamente da Union Square, in giù non c’è luce, acqua, gas, trasporti. Dalla 42 in su è il casino festaiolo più intenso che si possa immaginare. I nostri amici vengono a cenare qui e chiedono di poter fare la doccia e ricaricare i PC. Una mia amica spiritosa e un po’ snob era tutta contenta per essere riuscita ad andare al gabinetto e a lavarsi al MOMA. Milioni di cittadini newyorkesi non sono così fortunati, le immagini televisive mostrano chilometri di casette sommerse o sventrate, e l’intero blocco di case bruciare a Breezy Point nel Queens. Passata la paura della notte infernale, e l’adrenalina dell’aftershock e dei primi soccorsi, per centinaia di migliaia di famiglie le prospettiva sono terribili.

L’acqua che è ritornata dove era stata per secoli, non se ne andrà tanto facilmente. In interi quartieri le rete del gas si è rotta in più punti, ha dovuto essere chiusa per evitare esplosioni, e dovrà essere rifatta. Intanto si avvicina l’inverno. La metropolitana è stata invasa in più punti, una cannonata d’acqua ha spinto il mare dalla Battery fino a Brooklyn nel tunnel della Subway. I contatti elettrici sono tutti da smontare, pulire, rimontare, provare e nel caso essere sostituiti. Il riscaldamento, per il momento, è fornito da generatori per migliaia di case individuali, ma immediatamente si è verificata una scarsità di benzina perché il sistema non è in grado di reggere la domanda aggiuntiva. Il punto è, anche senza considerare le perdite finanziarie con le assicurazioni, chi avrà la possibilità concreta di ricostruire? E sarà possibile od opportuno ricostruire lì dove forse tra pochi anni un altro uragano causato dal cambiamento climatico si abbatterà anche più violento? Ma in queste casette spesso molto modeste, fatte come cassette di legno rovesciate e appoggiate su quattro pali vivono migliaia di persone spesso anziane, spesso poveri immigrati trascinati lì dalle risacche di grandi eventi del passato. Una vecchia intervistata dichiara con una certa fierezza: “Io sono riuscita a sopravvivere a Hitler”.

Smart cities. Sentita senza troppe sbavature dal doorman della casa dove abito a Sutton Place: “la tecnologia è buona, una volta non avremmo potuto essere avvertiti in tempo e chissà che cosa sarebbe successo”. Se penso alle geremiadi contro la tecnica e il “progresso” che, soprattutto nell’intellettualità italiana, vengono scatenate da eventi di questo genere, capisco che le persone comuni hanno molto buonsenso cui attingere. E una prima conseguenza che si può trarre è che la città, il maggiore prodotto del progresso tecnologico della specie umana, ha dimostrato anche questa volta la sua enorme capacità di reagire alla natura scatenata. Avere un tetto sopra la testa è letteralmente quello che ti salva in occasioni come questa; naturalmente il tetto deve essere solido, come sapevano bene, i tre porcellini e deve essere il prodotto di una buona tecnologia, cosa che manca a gran parte della popolazione del pianeta, anche di quella metà che si dice viva in aree “urbane”. Ma chi ha sentito l’ululato delle raffiche di Sandy a 100 e più chilometri all’ora lunedì sera, non può che apprezzare l’importanza di un tetto e di quattro belle solide mura. Detto questo a tutti quelli che con garrula temerarietà (a volte prezzolata) cianciano di “smart cities” vorrei consigliare di dare un’occhiata più attenta al rugginoso e a volte cadente sottoscala di una città come New York, come suggeriva Furio Colombo in La città profonda. Saggi immaginari su New York, (Feltrinelli, 1992)

È così, New York, come molte altre (ma non tutte) città americane è largamente decrepita. Quando sono arrivato a NY in nave, per la prima volta, il 19 agosto 1962, sono stato colpito (e affascinato) dal contrasto tra i grattacieli svettanti e il marciume del Pier (34?) al quale la nave stava attraccando. E da allora questo è stato uno dei temi che hanno sempre guidato la mia attenzione: un vecchio usato (in)sicuro che miracolosamente funziona a fianco di portentose (e costosissime) novità. La subway è un esempio classico, la strumentazione si è stratificata nel corso dei quindici decenni di vita e va da strumenti proto-industriali (per esempio un asse di legno che tutti i conduttori tengono in cabina che si chiama The Plank e che serve a staccare i contatti ad alta tensione dal binario in caso di emergenza) la pinza dei controllori, che è così pesante da venire a volte usata come arma di difesa personale (non è difficile immaginare, per chi ci pensa, i pericoli cui è esposto il personale di un sistema che trasporta 8,5 milioni di persone al giorno) la manopola di ferro e legno del guidatore, idem; le grate girevoli all’ingresso con dei minacciosi pettini di ferro note come “garlic grinders” che i guardiani (violando le regole, ma non le consuetudini) liberano dal blocco quando arriva l’ondata di ragazzini che escono da scuola, schiacciando un bottoncino rosso di quelli con il coperchietto di bachelite marron che non vedo più in Italia almeno dagli anni sessanta. Il tutto dentro un sistema elettronico molto sofisticato di sensori e interruttori elettrici gestiti da giganteschi servers sotterranei. Ovviamente tutto in tilt con l’acqua salata. Insomma le città come New York sono da questo punto di vista veramente un po’ come una giungla che cresce e ricresce continuamente su un sottobosco che marcisce ogni giorno di più.

Ma se allarghiamo lo sguardo fuori Manhattan, New York City come altre città americane sono come un vulcano che erutta grattacieli (Sudjic) circondati da miglia e miglia di baracchette di legno che prendono fuoco come fiammiferi, come è successo a Breezy Point martedì sera: passato il fuoco resta solo la cenere e qualche camino di mattoni. Quando entro in una casa americana, anche di buon livello, mi vengono sempre i brividi: fili elettrici, ciabatte, trasformatori dappertutto su moquettes dubitose, con il burner della stufa a gas sempre acceso. Figuriamoci nel vasto sprawl (la densità metropolitana americana è giusto al di sotto della densità totale italiana) dove ci sono case secolari e costruite spesso, come nel New Jersey su enormi wetlands e swamps. Sulla costa del New Jersey di fronte a New York c’era una palude così selvaggia che la leggenda (ripresa anche da qualche romanziere, di cui ora non ricordo il nome) voleva che ospitasse una tribù di amerindi magici rimasti lì dopo la colonizzazione. Come si può vedere dalle immagini che sicuramente hanno girato anche in Italia, sono città enormi di case e casette di legno, costruite a un palmo sopra l’acqua. Martedì sera a mezzanotte nella baia l’acqua è cresciuta di un record di 13 piedi e passa. A tutti gli effetti uno tsunami.

Politica, cultura e prevenzione. Anche qui, ovviamente, come per l’Aquila si è chiesto: ma si poteva prevedere? Contrariamente ai terremoti, che non si vedono, e la cui diagnosi è come tutti sanno assai ardua, gli uragani si possono vedere (dall’alto, ma anche dal di dentro da parte di speciali aerei, mi pare ce ne fossero in giro una decina attorno a Sandy, con piloti piuttosto abili chiamati “hurricane hunters“) e la previsione sulla loro evoluzione è diventata piuttosto minuziosa, l’hurricane viene seguito passo a passo, le tecniche di Geographic Information Science (GIS) e le mappature sostanziate da imaging tratte da foto satellitari, che ormai sono famigliari a tutti tramite Google Earth, permettono di seguire, letteralmente passo dopo passo, il ciclone. Inoltre, come si sa, il Weather reporting, che negli Stai Uniti è diventato un genere televisivo (vedi l’esilarante film di Steve Martin, L.A. Story, 1991, che si fa beffe di questa spettacolarizzazione) occupa una crescente porzione dello spazio televisivo e anche al di là del weather Channel interamente dedicato al tempo, in queste occasioni diventa effettivamente il centro del palinsesto televisivo.

Naturalmente sì, si poteva prevedere e anche entro certi limiti prevenire, ma su questo punto occorre capire che cosa vuol dire “prevenire”, perché non c’è a questo proposito alcuna chiarezza, si va dal magico al rassegnato e addirittura all’infastidito. Il migliore inquadramento che mi ricordi l’ho sentito fare al direttivo dell’ESTA, European Science and Technology assembly, l’organo di 100 scienziati di tutte le discipline creato da Ruberti a Bruxelles e da Sir Peter Swinnerton Dyer, il matematico di Cambridge. Parlando appunto di cambiamento climatico, siamo a metà anni novanta e i modelli erano molto controversi anche in campo scientifico andando dai pochi centimetri ai sette metri per il XXI secolo (in quella riunione appunto si scoprì che molti modelli non avevano calcolato che il solo riscaldamento di poche frazioni di grado si sarebbe tradotto in un aumento consistente dalla massa idrica) Sir Peter sostenne che era improbabile attendersi una azione efficace da politici che non sono in grado di investire risorse pubbliche in programmi che avranno effetti positivi in 50 o 100 anni. Al contrario sembrerebbe più produttivo pensare a interventi preventivi delle conseguenze. Credo che gli eventi successivi abbiano largamente premiato l’intuizione di questo grande matematico noto oltre che per essere un eccellente giocatore di bridge, sopratutto famoso per aver messo a punto la formula per distribuire i fondi pubblici alle Università inglesi.

Infatti tra i commenti successivi molti hanno fatto notare come Providence (Rhode Island) che dopo essere stata colpita più volte da precedenti uragani aveva affidato all‘U.S. Army Corps of Engineers il progetto di messa in sicurezza del porto, che ha permesso alla città di superare indenni Sandy. E il governatore Andrew Cuomo ha subito proposto un sistema di dighe e di portelli stagni per la metropolitana. Ma non sarebbe stato meglio impedire di costruire milioni di metri cubi di lottizzazione a mare sulle paludi? È necessario che su questi temi si esca dal pensiero unico degli interessi degli speculatori e si riprenda il pensiero critico: il passaggio quasi inavvertito da prevenzione, che implica l’aumento della partecipazione dei cittadini a protezione, che mette i cittadini nello stato di sudditi (abbiamo visto all’Aquila!) è uno dei prodotti perversi della sussidiarietà di rapina, che smonta le capacità di intervento pubblico per favorire strutture private ad hoc. È appena uscito un libro estremamente stimolante di Harvey Molotch, sociologo urbano della New York University, che i lettori italiani conoscono per precedenti opere, dal titolo Against Security. How we Go Wrong at Airports, Subways, and Other Sites of Ambiguous Danger in cui l’autore che ha cominciato a occuparsi di questi temi dopo l’attacco alle torri mette in luce i rischi dell’ideologia, soprattutto se prezzolata, in questi campi.

Ma non è solo a New York che, come scriveva il New York Times ,”For years, warnings that it would happen here” (NYT, Wed 31st, p1). Ho un personale benchmark molto preciso: nel 1998 il Consiglio della Triennale aveva affidato a un gruppo di esterni Peppino Ortoleva, Ugo Volli e il sottoscritto, l’incarico ufficiale di valutare e riordinare le diverse proposte di programma ricevute dalla Triennale. Tra queste ne avevamo in particolare elaborata una basata su uno spunto intelligente di Eo Quercioli, allora membro del Comitato scientifico, che la nostra commissione aveva recepito e sviluppato in un documento intitolato “Progettare in Terra 2”, di cui avevo curato in buona parte la stesura. L’idea era di dedicare delle attività seminariali ed espositive al tema della progettazione urbanistica di fronte ai disastri che potevano colpire grandi città: allora pensavamo a quelli naturali, e non sto a dire quanti ne sono capitati da quando fu fatta questa proposta anticipatoria, ma poi si aggiunsero quelli causati dall’uomo ed esemplificati dall’11 settembre. L’idea non era il frutto di qualche apocalittico marginale, ma una riflessione stimolata da molti autori, e in particolare McKibben che aveva coniato il termine “Terra 2” (tratto da un famoso fumetto) per descrivere la situazione di un pianeta diverso (But what if, all of a sudden, we live on some other planet? On Earth 2? “A Special Moment in History”, Atlantic, May 1998). Un pianeta, come si diceva nel nostro rapporto, “con sempre più acqua e sempre più fuoco”, come ben si è visto.

Il rapporto era stato recepito anche dal successivo Presidente della Triennale, Augusto Morello, con cui le università Statali, Festa del Perdono, e poi anche Bicocca avevano mantenuto ottimi rapporti, ma poi è arrivato il pensiero unico di Rampello, che ha certamente fatto bene il suo mestiere di venditore di immagini, tra cui quella di Milano, ma ha radicalmente tagliato fuori la tematica critica sulla città. Ma i disastri urbani, come possono interessare a un Rampello e ai suoi supporters? Disturbano il city-marketing. E fin qui passi, anche se guardando all’indietro lungo questi ultimi vent’anni, forse un po’ di buon senso avrebbe suggerito maggiore attenzione per questi temi. Però né io né gli altri due autori abbiamo accettato di buon grado lo sberleffo successivo, perché la Triennale, dopo aver cancellato il nostro programma, nelle celebrazioni di Morello, ha proprio usato il titolo del nostro rapporto “Progettare in Terra 2” sull’invito ufficiale, senza citare gli autori (ma in questo mondo di mani lunghe non usa davvero più) senza invitare nessuno dei tre autori, che tra l’altro, almeno nel mio caso, erano stati suoi amici. Era il pieno dell’era berlusconiana e lo stile era quello: il grande manager deve essere arrogante e anche, se occorre, un po’ volgare. Poi si è visto. Mi auguro che finita la mattana della città-vetrina, anche in istituzioni come la Triennale, che hanno guadagnato la loro fama internazionale promuovendo la realizzazione di visioni utopiche e non bottegaie del vivere in città, ritorni una visione critica del vivere urbano con meno bardi-strimpellatori alla Assurancetourix e più persone competenti che affrontino seriamente il problema delle grandi infrastrutture protettive della città che, come si è visto chiaramente (anche con i clamorosi cambi di campo verso Obama di Bloomberg e del governatore del New Jersey, Chris Christie) non possono che essere messe a punto da tecnostrutture nazionali. Ovviamente non affidate a cricche dedite al bunga-bunga, alla accumulazione di ricchezze e privilegi personali e sottomesse alle convenienze politiche. È chiaro che il sistema aeroportuale lombardo, per fare un esempio, non può essere organizzato da interessi localistici frammentari, quelli della Val Brembana piuttosto che quelli del Varesotto e neppure quelli, per essere precisi, del business insediato all’interno dei Navigli. Mi domando quale può essere l’effetto sui milioni di prima-volta visitatori di Milano Expo2015 che, dopo essere passati da Charles de Gaulle, Heathrow, Barajas, El Prat, o uno degli altri aeroporti europei comparabili, per non parlare di Singapore, Sidney o Dubai, si devono cuccare Malpensa. Sarà un invito a un ritorno o un biglietto di addio?

 

Guido Martinotti

 



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