7 novembre 2012

GAE AULENTI. ARCHITETTURA È DONNA


***ARCHITETTURA È DONNA è stato scritto da Emilio Battisti nel 1979 e pubblicato nel catalogo della mostra personale di Gae Aulenti che si tenne al PAC in quell’anno. Di Gae Aulenti e della sua architettura più recente si parlerà certamente molto nei prossimi tempi e la sua figura di architetto troverà una giusta collocazione nella storia dell’architettura italiana. La pubblicazione di questo scritto ci è sembrato essere un omaggio immediatamente dovuto alla sua memoria ma anche un ricordo di architetti ed episodi da non lasciar disperdere nel labile ricordo dei contemporanei. Naturalmente questo scritto si riferisce alla prima metà della sua carriera, quindi agli esordi e alla fase di affermazione. (ndr)***

Nella controversa vicenda dell’architettura italiana del dopoguerra, caratterizzata da fasi alterne di produzione culturale estremamente vitale e altre di preoccupante impoverimento di proposte e idee, alcune figure affermatesi e conosciute a livello internazionale hanno sintetizzato nella propria esperienza i momenti più significativi, i passaggi più critici, le fasi di maggior travaglio di questo periodo storico. Al vaglio di questa vicenda questi personaggi più si precisano nella propria figura, più diventano stereotipi e univoci: il designer industriale, il professionista di successo, il grafico affermato, l’architetto manierista, il pittore metafisico, l’ideologo dell’architettura.

Ciascuno di questi personaggi, malgrado il proprio attivismo, ha contribuito a distruggere e disperdere le componenti del quadro disciplinare dell’architettura, segmentandola in porzioni di pratica empirica, normativa tecnica, ovvero di una pura riproduzione di stereotipi formali o figurativi estremamente parziali. Tutto ciò a dispetto di affermazioni “politiche” che andavano predicando la continuità, l’unità totalizzante, la complessità, la storicità e tutto l’armamentario ideologico che ha manifestamente sopravanzato ogni ragionevole rapporto con la portata storica e il ruolo sociale dell’architettura contemporanea nel nostro paese.

In questo critico quadro di riferimento c’è però la tipica eccezione che conferma la regola e che è rappresentata dal fatto stesso di esistere in un ambiente sostanzialmente ostile. Si tratta della figura di Gae Aulenti, l’unica donna architetto contemporanea a cui io possa riconoscere senza limitazioni di essere in prima persona non solo culturalmente, ma anche professionalmente responsabile della propria pratica progettuale, che lei esplicita e sviluppa riducendo al massimo ogni possibile limitazione specialistica, applicandosi sia all’architettura, al design di oggetti e all’architettura di interni, come alla grafica e al teatro. Ciò che appare evidente è che ciascuna di queste espressioni progettuali si integra, pur nell’osservanza delle necessarie specificità, in un quadro di produzione di idee e di fatti spaziali formali e figurativi estremamente unitario e coerente. Così come vedremo, il design di oggetti si sviluppa manifestamente come esigenza di precisazione dell’architettura di interni, e allo stesso tempo il design grafico diventa ambito di verifica di una disciplina che si manifesta anche come spettro di riferimento di certi schemi insediativi, con un’unità di metodo che sembra attraversare tutta la sua esperienza.

Devo confessare che è quasi con stupore che mi sono reso conto del fatto che Gae Aulenti ha sempre rifiutato la partnership maschile nell’esercizio della progettazione e nell’assolvimento delle responsabilità che ciò comporta. Apprezzare questo fatto oggi, dopo l’esperienza femminista, con una rivoluzione dei ruoli tra i generi tuttora in corso, sembra un fatto abbastanza marginale; ma nell’Italia di più di venticinque anni fa, quando nel 1954 terminò i propri studi, laureandosi presso la Facoltà di Architettura di Milano, la situazione era certamente ossificata ed irrigidita da un numero enorme di limitazioni e prevenzioni. La cosa più interessante risulta poi l’aver fatto parte del gruppo dei discepoli di Ernesto N. Rogers, tenendo la propria posizione all’interno della redazione di «Casabella» dal 1955 al 1965 ossia per l’intero decennio in cui Rogers fu direttore, occupando quindi una posizione di osservatore e attore privilegiato all’interno dei vari avvicendamenti verificatisi nella struttura redazionale anche attraverso scontri culturali, ideologici e di potere decisamente violenti.

Se Rogers seppe sempre tenere sotto controllo questa situazione come era giusto aspettarsi dal fondatore della cultura critica in campo architettonico nel nostro paese, Gae Aulenti conscia della propria situazione di “privilegio” resterà costantemente incastonata all’interno della redazione sfruttando tatticamente proprio la situazione di emarginazione come difesa e riparo dai rischi di una presa di posizione emotiva, nei confronti delle contese interne. Così mentre maturavano le tensioni per conquistare il controllo di «Casabella» e i favori di Rogers, l’unica donna della redazione registrava e riponeva nelle pieghe della propria memoria brani di storia dell’architettura contemporanea.

Anche per suo merito la rivista di Rogers diventa un modello a mio parere tuttora insuperato di pubblicazione di architettura; dalle bianche copertine puriste dei primi numeri, a quelle che illustrano un impegno ampliato anche a temi di carattere più generale, la veste grafica di «Casabella» è stata l’immagine del più prestigioso giornalismo di architettura per almeno un decennio, riuscendo a comporre con appropriatezza il discorso teorico e il dibattito culturale assieme all’informazione anche tecnica e minuta sul prodotto progettuale. Su questa rivista, che lei ha sistematicamente progettato e confezionato per un intero decennio, compaiono alcuni suoi lavori pubblicati, ma neppure un suo scritto autografo; fatto che risulta molto significativo del tipo di limitazioni che consciamente o inconsciamente agirono nei suoi confronti.

Per quanto Gae Aulenti abbia una lucida e radicata coscienza di essere prima di ogni altra cosa un architetto, il sistema delle proposizioni teoriche, delle regole e delle convenzioni che costituiscono il quadro disciplinare dell’architettura, le risulta limitante e costrittivo. L’intelaiatura disciplinare viene registrata all’interno della propria esperienza come una gabbia fatta di tanti compartimenti tipologici, tecnici e formali di cui è necessario attraversare la compartimentazione interna e infrangere l’involucro esterno: lei dimostra che ciò è possibile sia per l’articolata espressione dei suoi interessi professionali, sia per la diffusione dei suoi interessi culturali, filosofici, letterari, figurativi. Si potrebbe riconoscere che questo architetto è tale a dispetto della disciplina architettonica e si muove costantemente in antitesi alla norma disciplinare istituzionalizzata.

Ma un fatto che appare subito evidente, al semplice contatto umano, è rappresentato dal carattere sintetico della sua cultura, dall’assenza di idealismo astratto, dalla permanenza costante degli elementi teorici e di pensiero all’interno della prassi quotidiana, dalla inscindibilità dei propri interessi professionali e di quelli culturali, dalla dimensione storica della propria esistenza e dalla cronaca del quotidiano. Non so quanto questa capacità di sintesi sia oggi possibile a Gae Aulenti in quanto donna o in quanto architetto; è certo che questa specie di umanesimo, che resiste al giorno d’oggi nella sua figura culturale e professionale, rappresenta un inquietante termine di paragone per ciascuno di noi.

Già Aldo Rossi, più di quindici anni fa, presentando alcuni lavori di Gae Aulenti introduceva il discorso annunciando e analizzando le ragioni della crisi del Movimento Moderno e indicava proprio questo architetto come colei che per prima, senza infingimenti e moralismi, aveva messo da parte quell’armamentario metodologico e tecnico, assieme al culto dei maestri, per applicarsi senza remore alla sperimentazione di nuovi linguaggi. In questo senso il superamento delle posizioni di maniera ispirate al Movimento Moderno, che sono state polemicamente formulate con sfarzo di enunciazioni e di dimostrazioni dalla cultura americana contemporanea, risulta senza dubbio molto tardo, se si pensa che alcuni architetti italiani avevano circa venti anni fa, con minor frastuono ma con determinazione, abbattuto quei miti e proceduto oltre.

Io penso che le due prime case di Gae Aulenti siano una prova storica incontrovertibile: proprio per il rapido evidente passaggio da un linguaggio di tipo ancora vernacolare per quanto ammantato dai moduli stilistici allora in voga del neoliberty — nella prima casa di San Siro, ad un’univoca e forte proposizione di tipo classico della casa in Brianza di soli tre anni più tarda, che risulta quasi completamente depurata di ogni inflessione dialettale. Direi che nell’ambito della progettazione architettonica questa seconda casa si presenta come la prima sua opera matura, nel senso che per compiutezza espressiva e per complessità dei moduli compositivi annuncia chiaramente tutta la serie dei progetti e delle opere successive. Ad esempio la dialettica intrinseca alla bipolarità della pianta, formata da due organismi gemelli accostati, rispetto alla unitarietà ostentata della copertura; inoltre la presenza di un sistema complesso di allineamenti e sfalsamenti all’interno dell’ideogramma insediativo; ancora, l’introduzione di un elemento spaziale di tipo concettuale, il traliccio-pergola di travi e pilastri di matrice cubica che ricorrerà in parecchie composizioni successive e, con sintomatica evidenza, negli allestimenti scenici più tardi.

Direi che la sovrapposizione stilistica non riesce a soffocare completamente questi archetipi spaziali, che prenderanno prepotentemente forma a partire dal progetto per la «Casa nel bosco» del 1962. In questo progetto il linguaggio architettonico si depura completamente di ogni accezione stilistica e si presenta come discorso e ipotesi esclusivamente spaziale, i moduli compositivi si precisano e si esplicitano le costanti del vocabolario che di esperimento in esperimento, come in un libro di novelle, ci restituiscono il linguaggio proprio di questo architetto.

Entro l’arco di tempo che va fino al 1962 e che comporta anche un’esperienza in campo didattico, condotta come assistente a Venezia per due anni presso il corso tenuto da Giuseppe Samonà, si chiude una prima fase formativa molto importante suggellata dal grande e impegnativo progetto dell’albergo per i giovani al Tonale, dove Gae Aulenti dimostra non solo di saper congegnare delle modeste entità spaziali entro il quadro di organismi tipologici semplici come la casa unifamiliare, ma anche di saper manovrare le masse architettoniche di un grande complesso alberghiero, con evidente complessità di funzioni, servizi e infrastrutture urbanistiche. Il Centro del Tonale non verrà mai costruito e si ha un po’ la sensazione che questa occasione persa fortuitamente (oppure del tutto conseguentemente per quanto abbiamo osservato all’inizio di questo scritto) condizioni pesantemente la sua carriera futura.

Nel 1960 in occasione della mostra «Nuovi disegni per il mobile italiano» tenutasi a Milano e organizzata dall’Osservatore delle Arti Industriali, che vedeva la partecipazione di una pattuglia di giovani architetti guidati dal gruppo redazionale di «Casabella» e tra i quali esponevano Gregotti, Rossi, Canella, Gabetti e altri, Gae Aulenti con la sua libreria da centro presenta senza dubbio la proposta più caratterizzata; un mobile con tratti, massa e peso decisamente architettonici, e un design, se così si può dire, concepito per creare effetti spaziali entro il proprio campo più che per definire funzioni e usi, anche in questo caso depurato da concezioni stilistiche, mentre il neoliberty già era affermato e in grado di produrre le sofisticate soluzioni che Gabetti e Isola nella stessa occasione avevano dimostrato di saper esprimere.

Praticamente da questa esperienza e credo dal dibattito e dalle riflessioni che accompagnarono questa esposizione inizia la carriera di Aulenti designer di interni e di oggetti per arredamento, con una esperienza estremamente interessante che rifiuta tutte le suggestioni tecniche e produttivistiche del design industriale, senza regredire mai a manifestazione decorativa o esornativa. Fin dai suoi primi arredamenti la concezione è fortemente unitaria ed esula dalle sistemazioni convenzionali che vedono, negli anni Sessanta, gli alloggi allestiti come campionari di oggetti ordinati in bella maniera in uno spazio asettico e depurato di ogni attributo formale.

Gae Aulenti con una coerenza che resisterà nel tempo anche alla prova delle occasioni molto più impegnative degli anni successivi scompone, modula e riaggrega lo spazio interno ricorrendo a un impianto murario fisso che risponde in modo definito e univoco alle esigenze di arredo.

Da questi primi esperimenti si proietta tutta la pratica dei successivi arredamenti e allestimenti della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta.

Già nel 1960 aveva collaborato alla XII Triennale per l’allestimento della sezione esterna «Casa», ma nel 1964, nella successiva edizione riceverà il Gran Premio Internazionale per il padiglione italiano con la stupenda “scenografia” della Corsa al Mare, basata sulla folla delle donne di Picasso riflesse e riprodotte dalle pareti di specchio disposte sui due lati e il rombo delle onde rotolanti sul grande cilindro ruotante sopra la testa dei visitatori.

Nella roboante congerie di dispositivi espositivi che caratterizzò quell’edizione della Triennale, questa sala allestita da lei insieme a Carlo Aymonino fu certamente l’unica a utilizzare un chiaro riferimento figurativo contestualizzandolo ex novo pur senza stravolgerlo semanticamente.

Io devo personalmente testimoniare che a quindici anni di distanza ho ancora molto nitido il ricordo della sensazione che provai entrando in quello scenario che mi accoglieva senza aggredire i miei sensi, come avveniva negli altri allestimenti che facevano grande sfoggio di mezzi tecnici e di espedienti percettivi.

Nella sequenza degli impegni professionali pare che ci sia una battuta d’arresto tra il 1964 e il 1967; è il momento della fine della direzione di Rogers a «Casabella» che le sottrae uno dei maggiori punti stabili di riferimento che durava ormai da dieci anni. Parlando di quell’esperienza Gae Aulenti dice che Rogers è stato un “padre”, un termine che evidentemente implica una carica emotiva molto potente e il riconoscimento di un principio d’autorità che vale più per l’evidenza dei sentimenti che per il riconoscimento di specifici meriti. Naturalmente Rogers è per lei padre culturale, nel senso che egli può essere considerato il tutore della sua fase di crescita e formazione nel primo decennio di pratica professionale. Con Rogers farà anche la sua seconda esperienza di insegnamento a Milano dal 1964 al 1967, ossia proprio nel periodo in cui matura la crisi strutturale, politica e culturale dell’università italiana e delle scuole di architettura in particolare.

Non c’è da meravigliarsi che questa crisi abbia avuto degli effetti anche sulla sfera professionale, con ripensamenti e crisi a proposito del proprio ruolo sociale e dei propri compiti; i seguenti viaggi, negli Stati Uniti e in Europa, di quegli anni, servono anche probabilmente per evitare l’oppressione psicologica del ricatto ideologico che aggrediva in quel periodo molte coscienze con propensioni critiche e autocritiche. Questi viaggi sono soprattutto viaggi di studio e nello stesso tempo si impegna come vicepresidente dell’A.D.I. (Associazione Disegno Industriale) a ridefinire le competenze professionali e la responsabilità sociale di questa figura allora in fase di prepotente affermazione del nostro paese a livello internazionale e che verrà consacrata alcuni anni più tardi con la mostra al Museum of Modern Art di New York con il significativo titolo: «Italy: The New Domestic Landscape ». Gae Aulenti, uno dei protagonisti di questa mostra, ottiene il riconoscimento ufficiale di un quinquennio proficuo di attività inaugurato nel 1967 con lo showroom Olivetti a Parigi che presenta la soluzione di una diffusa e fluida trasformazione dello spazio espositivo, che infrange ogni regola purista e gestaltica allora conosciuta e applicata.

L’ambiente espositivo è in competizione in questo caso, senza mezzi termini, con l’oggetto esibito e viene superato ogni canone e regola del convenzionale rapporto tra sfondo e figura; l’oggetto non è banalmente offerto, ma va cercato e scoperto in un paesaggio abbacinante e complesso e, malgrado il sapiente display, ogni oggetto appare quasi come un miraggio. Fanno parte di questo filone di interventi che si qualificano come esperimenti di “total design” lo showroom Olivetti di Buenos Aires del 1968, l’allestimento dell’appartamento per un collezionista a Milano del 1969 in cui, ancora più manifestamente nei confronti delle opere d’arte, l’arredamento si pone senza alcuna subordinazione e con assoluta ed esplicita autonomia e soprattutto senza alcuna deviazione o caduta di tipo decorativo; e ancora lo showroom della Knoll International a New York terminato nel 1970.

Direi che il tratto comune di questi esperimenti compositivi resta la dialettica attiva tra strutture formali che si confrontano con grande autonomia come ad esempio l’andamento raccordato delle piattaforme del pavimento e dei volumi sospesi al soffitto nello showroom Olivetti di Parigi, la diffusione delle immagini riflesse dalle soffittature di specchio della sede di Buenos Aires, con la conseguente moltiplicazione delle immagini di oggetti virtuali presenti e la dilatazione delle proporzioni stesse dello spazio a disposizione. Infine nello showroom della Knoll lo stridente rapporto tra gli elementi diagonali del layout espositivo, in polemico risalto rispetto agli squadrati allineamenti dei muri perimetrali.

In tutti e tre i casi risulta evidente il tentativo di scomporre e articolare lo spazio ai limiti della complessità compatibile con le finalità del suo uso funzionale. Senza voler fare dello psicologismo, mi pare che questa scelta non sia giustificabile in termini solo disciplinari, ma metta in gioco una carica espressiva che per sua natura sembra poco controllata da vagli di tipo razionale, per quanto risulti progettualmente definita in modo preciso.

La citata mostra organizzata a New York nel 1972 dal Museum of Modem Art, dedicata ai designers italiani, a dodici anni di distanza dalla precedente mostra collettiva organizzata a Milano dall’Osservatore delle Arti Industriali, consente di far qualche ulteriore considerazione. Innanzitutto Gae Aulenti è l’unica tra i progettisti che si presentarono nella prima mostra, che si sa imposto all’attenzione internazionale: non uno della trentina di architetti che cercarono di impostare un discorso di rinnovamento nel settore della progettazione del mobile e dell’oggetto di arredamento, compare nella mostra del Museum of Modem Art.

Tra due tendenze chiaramente evidenti nelle varie proposte di sopravanzare il problema attraverso superfetazioni tecniche, o di eluderlo attraverso astrazioni ideologiche di varia natura, lei sceglie un approccio dichiaratamente formale e architettonico costruendo lo spazio domestico, ancora una volta come metafora dello spazio urbano e affermando:

«Qualunque oggetto dell’uomo, monumento o tana, non può eludere il suo rapporto con la città, luogo di rappresentazione della condizione umana; la sua analisi è quindi possibile solo se si può definire l’oggetto forma discontinua dell’insieme: se si può dimostrare in che modo esso vi trovi il suo posto e la sua legge di apparizione. L’esistenza dell’oggetto si precisa nelle positive condizioni di un suo rapporto con la città». In questa posizione, così chiaramente espressa, viene superata la concezione asfittica e riduttiva del design industriale, ma si riunifica sotto un’unica disciplina ogni livello progettuale che va dall’oggetto alla città. Se poi si confrontano i contenuti delle proposte, mi sembra facile riconoscere che la libreria da centro, presentata dodici anni prima alla mostra organizzata a Milano, per la sua pregnanza architettonica sta agli stilemi del neoliberty, così come le allusive forme archetipe del suo allestimento domestico per il Museum of Modem Art corrispondono ai tecnologismi quasi sempre veramente inespressivi contenuti negli habitat carenati realizzati dagli altri designers italiani.

Gli showrooms della Fiat per Torino, Zurigo e Bruxelles esprimono in modo abbastanza chiaro un orientamento innovativo differente in quanto si applicano all’individuazione di uno scenario espositivo consono alla natura dell’oggetto esposto – l’automobile- basato su un rapporto di integrazione tra l’interno dello spazio espositivo e l’esterno della strada, introducendo dei percorsi penetranti a galleria e delle propaggini dello spazio pedonale pubblico, che attraversano, aggrediscono e deformano il volume espositivo. Nello stesso tempo, semplici accorgimenti, come quello di appoggiare le automobili su pedane inclinate, introducono chiari accenti dinamici all’intero contesto espositivo. Il risultato ottenuto è uno spazio ambiguo, ricco di allusioni e di rinvii, complesso per l’impossibilità di distinguere l’interno dall’esterno. Sulla base di queste esperienze si sviluppò l’idea di elaborare un manuale per come arredare le sale di esposizione e di vendita dei concessionari Fiat nel mondo.

In concomitanza a questi esperimenti crescono anche la sua notorietà e prestigio a livello internazionale; viene invitata a conferenze internazionali ottenendo riconoscimenti ufficiali e vengono organizzate alcune mostre sulla sua attività e produzione di designer.

La sua esperienza di ideatrice di allestimenti espositivi raggiunge il massimo impegno in occasione della progettazione della mostra itinerante Olivetti «Concept and Form» che sarà presentata successivamente a Parigi, Barcellona, Madrid, Londra, Edimburgo e Tokio, concependo per ogni città una diversa soluzione di allestimento in rapporto alla sede disponibile, indifferentemente il Palacio de Cristal di Madrid oppure un grande “gonflable” di fronte alla Euston Station a Londra.

Anche in questo caso, malgrado la mostra sia itinerante e quindi necessariamente smontabile e rimontabile in un altro luogo, nulla dell’allestimento tradisce il suo carattere provvisorio ed effimero; ogni tema della mostra è trattato in un modulo con forma definita, su volume geometrico autonomo elementare, dal cubo, alla piramide, al labirinto, tali da configurare insieme un “paesaggio” che si può cambiare modificando la combinazione dei volumi tra loro. Le loro forme di grandi “solidi” geometrici, talora tagliati secondo la diagonale, consentono composizioni articolate e complesse. Due diverse scale caratterizzano questo paesaggio: quella grande e fantastica dello spazio compreso tra i volumi, definito da pareti alte e chiuse; e poi quella minuta, analitica e critica all’interno di ogni volume dove si illustrano i temi della mostra. Una specie di città didascalica non solo per il suo contenuto espositivo, ma anche in quanto metafora della città reale che quasi sempre divide rigidamente la sfera pubblica da quella privata, ossia la sfera dell’esperienza sociale da quella dell’esperienza soggettiva.

Gae Aulenti, architetto della mostra, sussume entro la propria idea una serie di apporti diversificati e speciali; arriva con questa esperienza a esercitare un comando e un controllo attraverso la progettazione che domina non solo la forma del manufatto, ma la sua struttura combinatoria, le sue regole compositive. Forse quando Gae Aulenti dice che — per dare corpo ed esemplificare la complessità e il peso delle sue aspirazioni di architetto — vorrebbe progettare e costruire una città, non si rende conto che almeno in termini progettuali, ossia attraverso una simulazione spaziale, questa città l’ha già realizzata.

Questa esperienza inaugura il ciclo degli anni Settanta che è anche contrassegnato da un preciso rilancio degli interessi progettuali in campo architettonico attraverso la partecipazione al concorso internazionale per il Centro Direzionale di Perugia. Si tratta di un progetto che comporta questioni sia di scala architettonica che urbanistica, come già era stato il primo progetto del Tonale. Una congerie di strutture, volumi e tipi architettonici impegna l’area con orientamento vario, ma tutti risultano coordinati attorno ad una trasparente e tenue traccia di forma quadrata, segnata sul territorio da strade e assi di collegamento, che determina il campo dell’intervento situando e misurando, rispetto a se stessa, ogni elemento architettonico che sembra apparentemente slegato e incoerente da tutti gli altri, per la propria giacitura insediativa.

Anche in questo caso i moduli compositivi che Gae Aulenti utilizza nella progettazione di una struttura di scala urbana, non sono quelli noti e sperimentati della griglia regolare, della struttura assiale o a pettine, o del dispositivo viabile che hanno caratterizzato le soluzioni di molti altri concorrenti, ma usa un ideogramma insediativo che enuncia prima di tutto una proposizione espressiva, manifestata da un insieme di forme che si confrontano aggregandosi, scontrandosi e deformandosi vicendevolmente in questa specie di Campo di Marte dell’architettura.

Un’analoga vicenda compositiva si sviluppa nell’altro progetto di grande scala di un insediamento residenziale per 3.500 abitanti con servizi scolastici, localizzato presso Milano, del 1973.

Anche in questo caso il contrasto di allineamenti e griglie domina il discorso compositivo per quanto, a mio parere, esprima una più chiara gerarchia tra gli elementi che si confrontano: le lunghe aste dei corpi residenziali sono allineate tra di loro su due tracce parallele e i volumi dei servizi sono tutti contenuti entro un unico invaso spaziale definito dalle residenze.

L’impegno progettuale in campo architettonico prosegue con alcuni nuovi lavori per case unifamiliari: quella di Parma del 1972 che riecheggia nel criterio di composizione della pianta — formata da due distinti, identici organismi divisi da uno spazio passante tenuti insieme da un’unica grande copertura — il progetto della casa in Brianza.

In questo caso il pacato carattere neoclassico è sostituito da un sapore vernacolare che, per una concomitanza di fattori forse non tutti controllati, diventa imprevedibilmente e sorprendentemente esotico. L’accuratezza delle connessioni tra gli elementi della struttura di tronchi cilindrici posta in evidenza, i fitti graticci dei serramenti esterni, la solennità della copertura fanno di questa architettura più un tempio arcaico delle analisi positiviste dello Choisy che una casa della periferia agricola di Parma; eppure tutti i dettagli della carpenteria lignea di questa casa sono proprio tratti dallo studio dell’edilizia rurale del luogo.

E molto utile confrontare questa casa con due realizzazioni successive sempre di case unifamiliari: la casa di Pisa del 1973 e quella di Cap Ferrat del 1975. Mi sembra che queste due ultime testimonino della rapida evoluzione dei criteri compositivi di Gae Aulenti: da un procedimento di tipo classico basato sulla ricerca analitica dei rapporti spaziali e delle proporzioni dimensionali, con una sostanziale osservanza dell’idea di centralità della composizione, pur con la presenza di elementi di interferenza che ho individuato precedentemente, a un procedimento di genere più informale, sintetico e assiomatico che vale in sé e a cui non serve l’evidenza di un centro.

La casa a “muri paralleli” di Pisa si fonda sull’idea del muro nelle varie possibili accezioni che diversi tipi di aperture in esso praticate gli possano fare assumere. La struttura della casa deriva dalla giustapposizione di un complesso sistema di filtri e diaframmi costituiti dai muri, tutti disposti parallelamente, e variamente interessati da aperture, che con le loro alternanze e scarti formano una specie di composizione suprematista.

La casa di Cap Ferrat si basa invece manifestamente su una formalizzazione di carattere concettuale che sposta spazialmente il centro all’esterno della figura. Il rapporto che esiste tra il frastagliato volume di lisci muri in calcestruzzo e il padiglione vetrato disposto con sapiente angolazione, all’esterno del suo perimetro, rappresenta una cosciente rottura delle regole compositive, una manifesta trasgressione della centralità fino a questo momento non messa ancora esplicitamente in discussione. Vorrei avere maggiori attitudini e competenze interpretative, per tentare di sapere che cosa significhi nella vicenda culturale, e vorrei dire perfino mentale, di Gae Aulenti questo atto di proiettare all’esterno della fortezza di calcestruzzo questo padiglione trasparente, ma fatto di solide sbarre, come una gabbia.

Mi tornano alla mente le sue dichiarazioni sulla disciplina dell’architettura rivista proprio come una struttura costrittiva, verso cui la polemica costantemente esercitata ha messo in discussione ogni tipo, ogni norma e ogni forma prescritti. Mi sembra che questo progetto proprio per il suo patente e scoperto simbolismo rappresenti il momento di definitiva liberazione dal vincolo complesso, e inevitabilmente difficile da sradicare, della disciplina.

Non a caso mi sembra questa innovazione subentri dopo che l’attività in campo teatrale è stata avviata ed ha probabilmente avuto la possibilità di esercitare il suo feedback sulla progettazione architettonica.

L’attività in campo teatrale inizia nel 1974 in modo occasionale dall’incontro con il regista Luca Ronconi e diventa negli anni successivi uno degli impegni più importanti sia per occasioni professionali che per l’attività di ricerche, che dal 1976 è stata collegata all’esperienza del Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato diretto da Ronconi con la collaborazione di Franco Quadri, Dacia Maraini e altri.

Nell’interno del laboratorio Gae Aulenti è incaricata della ricerca figurativa e sul territorio; il programma di lavoro è definito nella sua forma generale dal rapporto teatro-territorio, e si propone di indagare che cosa è la comunicazione teatrale attraverso la produzione di spettacoli-saggio, preparare materiali e strumenti per le realizzazioni di uno spettacolo finale sul territorio.

Io mi limiterò qui a osservare come le proposte spaziali elaborate per gli allestimenti scenici risultino anch’esse inquadrabili entro il sistema delle concezioni, del lessico e del vocabolario della sua pratica progettuale architettonica. Soprattutto le prime esperienze di ricerca di spazi teatrali che mi sembrano molto chiaramente contrassegnate dagli stessi archetipi spaziali e formali individuati nei progetti di architettura precedenti: il quadrato come struttura centrale, la scala, la piramide tronca e a gradoni, l’invaso tronco piramidale rovesciato, lo sfalsamento di orientamenti, il traliccio a gabbia che misura assolutisticamente lo spazio, con una attitudine a coordinare tutti questi elementi, ove appaiono secondo una centralità unificante e quasi sacrale dei luoghi che vengono definiti nel progetto. Ritengo tuttavia che l’esperienza teatrale comporti una revisione profonda del senso, più che della pratica, della esperienza progettuale di questo architetto, che al momento mi sembra non abbia ancora fatto il corso della sua gestazione completa.

I venticinque anni vissuti nel campo della progettazione potrebbero procurarle una esperienza matura, assestata e priva di accelerazioni e scarti: sembrano invece la costante propedeusi di qualche cosa che non si realizzerà forse mai, e penso che l’esperienza nel campo teatrale di questi ultimi cinque anni rappresenti, oltre che un genuino interesse, anche un mezzo per ridiscutere dalle fondamenta il sistema delle soluzioni spaziali già sperimentate e conosciute.

Gae Aulenti è stata definita da Alberto Arbasino in un frivolo scritto di dieci anni fa «una combinazione tra il fascino bucolico e la solida mentalità di un ingegnere», io più semplicemente affermo che è il primo architetto che abbia dimostrato in tutta evidenza che Architettura è sostantivo di genere femminile.

Emilio Battisti



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