31 ottobre 2012

GIOVANI, SPAZI SOCIALI E ORDINE PUBBLICO


Anni e anni di malgoverno, di malaffare, di incapacità di produrre crescita e benessere, hanno portato la fiducia dei giovani nella politica a livelli vicino allo zero. A subire maggiormente le conseguenze del “decennio perduto” con il quale abbiamo inaugurato questo secolo, oltre che della più recente crisi, è il presente e il futuro delle nuove generazioni.

Da una parte c’è quindi un paese che non gira nel verso giusto, ma dall’altro anche nuove generazioni sempre meno disposte a subire passivamente. Gli attuali under 30 fanno parte della molto studiata (quantomeno negli altri paesi) generazione dei Millennials. Antropologicamente diversi da chi li ha preceduti. Le differenze principali le possiamo sintetizzare con tre C: connessi, aperti al cambiamento, combattivi. Connessi nel senso che sono nativi digitali, vivono in rete, in perenne relazione virtuale con il mondo. Ma questo non significa che a contare sia solo lo spazio virtuale. La spinta alla mobilitazione può nascere sul web ma poi si scende in piazza, si sale sui tetti. La quotidianità è inoltre vissuta in spazi in cui abitare, lavorare, incontrarsi e confrontarsi fisicamente.

La seconda C è quella di cambiamento. C’è una gran voglia di nuovo in una società che appare invece bloccata, più portata a difendere e consolidare quello che già c’è che a riconoscere forme nuove di interazione ed espressione o comunque ciò che opera fuori da schemi precostituiti. La terza è la C di combattivi. Sono cioè pronti a spendersi e a mobilitarsi dal basso per sostenere le proprie ragioni o dar forza a istanze in cui si riconoscono. È accaduto con la primavera araba, con i movimenti degli indignados e degli occupy. Possono quindi essere soggetti attivi di cambiamento in processi virtuosi di trasformazione e innovazione sociale. Ciò avviene tipicamente quando possono ottenere spazi e fiducia. In caso contrario aumentano insofferenza e frustrazione che rimangono latenti fino all’occasione in cui si scatena una reazione, che spesso rischia anche di essere violenta e scomposta.

Più problemi si cronicizzano, le prospettive per le nuove generazioni si restringono, gli spazi di confronto degradano, le disuguaglianze aumentano, le istituzioni e la politica perdono di credibilità, e più aumenta la possibilità che i giovani anziché assumere un ruolo da protagonisti di un nuovo modello di sviluppo sociale, si ritaglino un ruolo di antagonisti nei confronti di un sistema che li esclude o nel quale non si riconoscono. La metaforica differenza tra l’uno e l’altro è ben rappresentata nella canzone di Francesco De Gregori “Il bandito e il campione“, che contiene il passaggio chiave: “cercavi giustizia ma trovasti la legge”. Quando si arriva a contrapporre la legge e le esigenze di ordine pubblico alle istanze di giustizia sociale significa sempre che qualcosa non funziona nel rapporto tra istituzioni e vita comune dei cittadini.

Quello, in particolare, degli spazi sociali autogestiti è un tema che torna periodicamente nelle pagine di cronaca dei quotidiani come accade con un’epidemia endemica, complicato da risolvere anche per una amministrazione ben intenzionata e disposta al dialogo come quella attualmente alla guida del Comune di Milano. Tanto da trovarsi a subire il vulnus dell’invasione di Palazzo Marino da parte di alcuni militanti dei centri sociali come protesta eclatante contro gli sgomberi. Bene ha fatto la polizia, su chiamata, a intervenire e a ricondurre fuori chi era entrato con la forza, travolgendo i vigili all’ingresso. Ma il gesto in sé ha un suo valore simbolico. Un segnale dell’esigenza che i palazzi del potere si aprano alla realtà sociale più ampia, compresa quella meno integrata e integrabile. Quella che fa più fatica a farsi sentire e alla quale la politica ha maggior difficoltà a dare risposte perché non esistono soluzioni standard.

A ribadirlo ulteriormente è stato l’incontro di venerdì 26 ottobre all’Acquario tra assessori e rappresentanti del Lambretta, del Cantiere, di Macao e di altri centri sociali. Da una parte la buona volontà imbrigliata dalla rigidità della burocrazia, dall’altra l’autogestione non regolamentabile. Un dialogo tra chi cerca di intendersi parlando però due linguaggi molto diversi. Non sarà facile, ma a volte i gesti valgono più delle parole, purché siano concreti e possibilmente assistiti dall’intelligenza di inventare nuove soluzioni.

Uno stabile vuoto e chiuso è come una terra sterile lasciata colpevolmente improduttiva mentre c’è chi fa la fame. Se qualcuno va a seminare, ovvero usa gli spazi per produrre valore sociale, potrà commettere un reato ma risponde a un principio morale forse di ordine superiore. Combinare meglio voglia di fare e risorse disponibili è la vera sfida a cui è chiamata l’amministrazione di questa città, che va ben oltre la logica degli sgomberi a salvaguardia dell’ordine pubblico.

Alessandro Rosina

 

 



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