31 ottobre 2012

musica


 

LA SCALA E IL FAI

Domenica scorsa la Philharmonia Orchestra di Londra, diretta da Esa-Pekka Salonen che da anni ne è alla guida, ha eseguito alla Scala due magnifiche Sinfonie, o meglio due capolavori di grande interesse per l’evoluzione di quella straordinaria forma musicale: la “Settima” di Beethoven e la “Fantastica” di Berlioz.

Si tratta di due opere la cui principale caratteristica è l’innovazione portata nel panorama musicale della prima metà dell’ottocento; se nel 1808 Beethoven con la “Quinta” mandava in archivio l’epoca della sinfonia classica di Haydn e di Mozart, cinque anni dopo con la “Settima” creava le basi del futuro, quello su cui avrebbero poi costruito le loro sinfonie Schumann, Mendelssohn e Brahms. Pochi anni dopo il giovane e irrequieto Berlioz (nel 1830 aveva appena ventisette anni!) con la Sinfonia Fantastica decide di raccontare una storia, si inventa una scenografia, costruisce la cosiddetta musica “a programma” e traccia una strada che sarà percorsa da molti dopo di lui.

Mentre la settima sinfonia beethoveniana non viene eseguita oggi tanto frequentemente quanto vorrebbe la sua celebrità – forse proprio perché è un’opera sulla quale si è scavato veramente molto ed è difficile aggiungervi alcunché, forse anche perché i direttori temono il confronto sulle opere che il pubblico conosce a memoria – sorte diversa sta capitando alla Fantastica di Berlioz che, dopo la bella esecuzione dell’anno scorso all’Auditorium con l’Orchestra Verdi diretta da Zhang Xian, solo dieci giorni fa ci era stata proposta al Conservatorio dalle Serate Musicali, eseguita dall’Orchestra Nazionale del Belgio diretta da Andrey Boreyco. Dev’essere proprio il suo “fantastico” momento! Non capita infatti frequentemente di ascoltare la stessa opera a distanza così ravvicinata – specialmente un’opera sinfonica complessa come questa di Berlioz – ed è occasione rara quella di poter mettere a confronto approcci, professionalità, stili, culture, percorsi differenti.

Uno dopo l’altro abbiamo ascoltato due direttori della stessa generazione (poco più che cinquantenni), russo il primo e finlandese il secondo, con temperamenti musicali diversi, e soprattutto due orchestre, quella belga e questa inglese, accomunate sì dal rigore e dalla disciplina ma differenti sia nel suono unisono degli archi che negli impasti sonori dei legni e degli ottoni, tanto da far percepire una scuola inglese che cura di più le singole sezioni strumentali diversa da quella tedesca – cui si rifà l’orchestra belga – che cura di più il suono d’insieme dell’orchestra.

Due magnifiche esecuzioni che hanno offerto oltre alla gioia dell’ascolto il piacere di scoprire a fondo un’opera piena di rarità, come il dettagliato racconto di ciò che la musica intende rappresentare (il poeta innamorato e dolente) o come l’inusuale organico comprendente un ophicleide e un serpentone (specie particolari di clarini dal suono molto basso, oggi sostituiti da tube) e ben due set completi di timpani, suonati contemporaneamente da quattro timpanisti; un’orchestra di un centinaio di musicisti (immaginate la complessità di queste tournée in paesi stranieri, spesso lontani!) la cui direzione sembra avere, fosse anche solo per l’ampiezza della partitura, qualcosa di miracoloso.

Quanto alla “Settima”, abbiamo ammirato molto l’equilibrio e la sobrietà dell’interpretazione, persino troppo severa nello Scherzo che richiederebbe più sorriso e ironia, mentre quanto meno azzardato ci è parso il tempo scelto per il quarto movimento – che è “allegro con brio” e non “allegro molto” o “con fuoco” – anche se queste grandi velocità sono diventate ormai (purtroppo) prassi consolidata.

Il concerto, organizzato dal FAI per raccogliere fondi a sostegno della Villa Necchi Campiglio – quel gioiello di architettura degli anni ’30, di Portaluppi, sempre visitabile al n. 14 di via Mozart – è stato vistosamente sponsorizzato dalla Deutsche Bank. Forse per questa ragione ciò che ci è piaciuto di meno è stato il pubblico, assai diverso da quello usuale della Scala e ancor più diverso da quello del Conservatorio; un pubblico magari elegante ma non di appassionati musicofili bensì di persone che meritevolmente hanno voluto dare una mano al FAI ma che, non avvezze alle sale da concerto, dovrebbero imparare a soffocare i colpi di tosse, non lasciare precipitosamente la sala prima del congedo degli artisti, non esprimere il consenso con urla da stadio.

 

 

Mentre andiamo in stampa, come si dice, sta per iniziare il … “concerto del ritorno”… ben inteso il ritorno di Claudio Abbado alla Scala; abbiamo assistito alle prove, sarà il difficile argomento della prossima nota.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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