24 ottobre 2012

POLITICI PEGGIO DEI GRAFFITARI


Bene pulire i muri dagli spegacci dei bombers ma attenzione alle radici del fenomeno e alla frase spiritosa che ho trovato su un muro: “Pitta e ripitta ricompare la scritta”. Periodicamente l’ira dei benpensanti s’infiamma contro i graffitari o coloro, in genere giovani, che imbrattano i muri della città per esprimere una voglia artistica o semplicemente per segnare la propria presenza o lasciare il segno di una protesta. L’ultimo in ordine di tempo, di una lunga serie certo non destinata a esaurirsi qui, è il fondo di Gianni Ravelli, “Non chiamateli graffiti. Milano e i suoi muri sporchi” (Il Corriere – Milano 6 ottobre 2012).

È interessante notare che l’articolista per trovare una motivazione sufficientemente forte all’attivazione dei pubblici poteri si rifà non alla qualità della vita degli abitanti, ma all’esigenza che per il Salone del Mobile i visitatori trovino una Milano più pulita, meno trascurata e insozzata. Se dobbiamo pulire però è bene che si cominci dai luoghi in cui le scritte sui muri danno un segno di abbandono e scarsità di risorse per la pulizia, ma il fenomeno va anche inquadrato e capito se non deve semplicemente tradursi in una gara tra chi pulisce e chi sporca.

Naturalmente verrò subito accusato di volere lo scempio, come avviene tutte le volte che faccio notare che le città, soprattutto le grandi città non sono la hall d’ingresso di un grande albergo o della Banca d’Italia, e che un po’ di sporco, confusione e disordine non sta male ed è difficilmente eliminabile. Ma la mia è l’opinione personale di un consumatore di scarpe professionale formatasi in migliaia di camminate “à travers le chaos des fourmillant cités”, e mi guardo bene dal volerla imporre a chicchessia. Quando sono ritornato a New York alla fine degli anni ’60 la città era molto cambiata da quella di cinque o sei anni prima e io, abituato alle città europee dove in quegli anni i muri si erano messi a parlare, mi sono fatto sbeffeggiare dai miei colleghi perché mi ero convinto che le vetture della Subway, tutte ricoperte di graffiti come quei corpi interamente tatuati, fossero il risultato di qualche iniziativa comunale. Dico, e ripeto, una cosa molto diversa: inutile prendersela moralisticamente con un fenomeno diffuso, che forse non si può né prevenire né reprimere se non se ne capiscono le radici. Che affondano nel tempo lontano, come dimostrano i graffiti a Pompei e in altri antichi siti archeologici che ci aprono squarci inaspettati sulla continuità con le abitudini dei nostri avi.

Lo scandalo non serve, e da vecchio professore ho molti dubbi su “la sensibilizzazione nella scuola (a partire dalle elementari)” per la semplice ragione che quelle elementari le ho fatte anch’io, qualche eone addietro, e so benissimo che allora noi eravamo fortemente sensibilizzati, ma i porta lampade di smalto blu e bianco delle strade del mio paese erano tutti butterati perché, se colpiti da una pietra lanciata a mano o con il tirasassi facevano un suono al quale nessun bambino riusciva a resistere, e le lampadine davano un adorabile “plop”. Non dico l’altro giochetto che consisteva nel far sfarfallare la catena rubata al gabinetto della scuola verso i fili dell’alta tensione. Quello era riservato ai più grandicelli, anche perché una volta rubata, la catena non veniva facilmente sostituita e quella volta che il gioco è riuscito finendo in una grande vampata che ha lasciato alcuni anelli della catena così prodigiosamente fusa pendere dai fili (per la reverente e imperitura memoria di varie classi di bambini a bocca aperta e naso colante in su) dopo pochi minuti sono arrivati quelli della Wermacht con l’aria cattiva. Ma temo che questo tipo di sensibilizzazione non sia oggi alla portata dei maestri e poi un conto è un villaggio di qualche migliaio di anime sulla montagna e un altro una metropoli con decine di migliaia di ragazzetti.

La civilizzazione si è grandemente diffusa e quasi dovunque anche i banditelli più scatenati i lampioni li lasciano stare, ma gli spazi che si affacciano alla vista del pubblico sono un’altra cosa ed è inutile prendersela con qualche imbrattatore perché i cosiddetti graffitari, writers o bombers che dir si voglia non sono altro che la punta della coda di un fenomeno gigantesco di mercificazione di tutte le superfici a vista delle nostre città. I muri di tutte le città e pressoché di tutta la città sono il supporto per insegne, grandi posters pubblicitari, muri legalmente ricoperti da migliaia di cartelloni che promettono le cose più insensate (tipo “Più pensioni e meno tasse per tutti”, un ossimoro da peracottari), schermi digitali sempre più grandi, insegne più o meno luminose, una foresta di segnali stradali di ogni genere di pubblicità e avvisi largamente dominati dal softporno e da un italiano mescolato al dialetto che potremmo ben definire “italietto”, o da un ridicolo “globish”, moderna versione dei tradizionali pidgins attorno al mondo.

Possiamo prendercela quanto vogliamo con i “graffitari” e, sicuramente, la sporcizia non è gradevole, ma non arriveremo a nulla senza capire che gli imbrattatori siamo noi, la nostra civiltà dell’immagine, ci sono illustri colleghi che si occupano ex professo del fenomeno con cattedre di qui e di là dell’atlantico e la Triennale ha persino dedicato un convegno alle scritte urbane. La “Grafica è dappertutto”afferma autorevolmente un cartello sopra un pissoir nei gabinetti della Triennale, e il massimo della commistione tra pubblicità e graffiti è provato da una pubblicità a forma di graffiti dipinta sui vetri del grattacielo De Mico, nel 2007. Nella città i muri parlano e prendersela con l’ultimo centimetro della coda del cane, i ragazzini che non fanno altro che cercare di adeguarsi al cane intero, mi pare davvero un’operazione destinata a scarso successo.

Tanto più che in aprile i visitatori del Salone del Mobile a Milano, ma più ancora tutti i cittadini di questa come di tutte le altre città e di tutti gli 8.000 comuni del Bel Paese avranno le loro belle piazze e vie insozzate da ben altre brutture, contro le quali raramente i fogli perbene che inveiscono contro i graffitari alzano la voce. Tra qualche mese infatti le città italiane verranno invase dai famosi “tabelloni” elettorali, schiere di trespoli fatti da tubi metallici rugginosi con inani porta scritte che dovrebbero indicare obbligatoriamente l’utilizzatore dello spazio sottostante: uso il condizionale perché sappiamo quante eccezioni debba soffrire nella pratica questa regola.

Se non vado errato, i tabelloni sono regolati dalla Legge 4 aprile 1956, n. 212. Norme per la disciplina della propaganda Elettorale, Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 87 dell’11 aprile 1956 che all’articolo 1 statuisce che “L’affissione di stampati, giornali murali o altri e manifesti, inerenti direttamente o indirettamente alla campagna elettorale, o comunque diretti a determinare la scelta elettorale, da parte di chiunque non partecipi alla competizione elettorale ai sensi del comma precedente, è consentita soltanto in appositi spazi, di numero eguale a quelli riservati ai partiti o gruppi politici o candidati che partecipino alla competizione elettorale, aventi le seguenti misure: metri 2,00 di altezza per metri 4,00 di base, nei comuni sino a 10.000 abitanti; metri 2,00 di altezza per metri 6,00 di base, nei comuni con popolazione da 10.001 a 30.000 abitanti; metri 2,00 di altezza per metri 8,00 di base, nei comuni con popolazione superiore o che, pur avendo popolazione inferiore, siano capoluoghi di provincia”.

L’impostazione della norma è di più di mezzo secolo fa ed è appena il caso di ricordare che la televisione italiana aveva allora iniziato da poco (1954) le trasmissioni e che in quell’anno (1956) si potevano ancora vedere trasmissioni del tipo Macarietto scolaro perfetto, che presentava le regole del nuovo codice stradale. Gli italiani allora come ora leggevano pochi giornali e l’informazione e la propaganda politiche si facevano ancora con gli agit-prop i fogli di sezione e di parrocchia e le bacheche dell’Unità de l’Avanti o di altri fogli. Le campagne del 1948 e del 1953 avevano mobilitato le matite da disegno di alcuni dei più noti vignettisti da Guareschi a Mosca in qui e tutti ricordano le immagini delle colonne dei portici di mezza Italia ricoperte di manifesti elettorali. L’introduzione degli orridi tabelloni, rappresentava un calmieramento, una riduzione dello spreco e della sozzura e un tentativo di imporre un’eguaglianza di posizioni di partenza.

Oggi nel campo della comunicazione politica le cose sono radicalmente cambiate, anche se proprio la comparsa di quei trespoli rugginosi sprofonda di nuovo ogni volta le nostre città in un’atmosfera di miseria e sciatteria, rimandando quasi esemplarmente all’obsolescenza del nostro sistema politico, nonostante tutta la pseudo-modernità della diffusione dei media. Rivolgiamo un accorato appello al Primo Ministro Monti, i cui tratti personali di riservatezza e austerità non possono non sentirsi offesi dallo scempio dei manifesti e dei loro trespoli, affinché nella legge elettorale in preparazione si eliminino queste norme preistoriche.

I manifesti elettorali vanno eliminati dalla scena urbana italiana perché:

* In primo luogo deturpano orribilmente anche le più belle vie e piazze delle nostre città, diffondendo un’immagine che è lontana anni luce da quella elegante e artistica che vorremmo fosse offerta agli abitanti e ai visitatori;

* In secondo luogo sono uno spreco ingiustificato di carta, per immagini che spesso rimangono esposte solo poche ore; a volte si stratificano venti, trenta e più manifesti uno sull’altro in pochi giorni

* In terzo luogo, nonostante l’intento della legge, non eliminano le disparità perché chi ha molti soldi può investire in sempre nuovi manifesti

* Non solo, ma in molti moltissimi casi, i manifesti vengono affissi anche fuori dagli spazi previsti dilagando per ogni dove

* Ma, soprattutto, danno quasi dovunque l’impressione ai cittadini che i soprusi comincino ancora prima dell’elezione; i manifesti affissi sugli spazi riservati ad altri e nei luoghi più belli della città in barba alle norme dicono, “noi facciamo quello che vogliamo: votateci”. E molti cittadini finiscono per stare a casa

* Convogliano un’immagine melensa, quando non addirittura repellente, delle persone che compongono la classe politica, con slogan raramente perspicui, il più delle volte banali e non di rado volgari o decisamente cretini, accrescendo l’allontanamento dei cittadini dagli eletti e dai futuri eletti. Dopo i recenti scandali, e i figuri che sono emersi forse qualcuno rifletterà sul significato reale del trito “metterci la faccia”, e si convincerà che quella faccia forse era meglio non mettercela.

* Nei lunghi giorni della campagna e per molto tempo dopo i manifesti e i loro squallidi brandelli insozzano le vie della città imponendo uno sforzo aggiuntivo alla nettezza urbana, intollerabile in un periodo in cui i comuni devono tagliare i pasti ai bambini.

Ci auguriamo che il Presidente del Consiglio voglia prendere in considerazione questo appello; forse qualcuno obietterà che vi sono problemi più importanti, ma un’azione incisiva, e a nessun costo, per migliorare l’aspetto delle nostre città, dà risultati immediatamente percepibili e offre un segno tangibile, che chiunque può cogliere, della capacità di rinnovamento e di abbandono di vecchie pratiche di un governo che vuole cambiare le cose, in meglio.

 

Guido Martinotti



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