10 ottobre 2012

QUEL LOTTO DI TERRA EDIFICABILE


Nel suo articolo scritto per ArcipelagoMilano, Marco Romano ci fornisce un trattatello di forte e dichiarata impronta ottocentesca, ancorché applicata a più recenti dinamiche della domanda immobiliare. Il saggio, nel contestare con sdegno quanti (nello specifico il consigliere regionale Pippo Civati) spendono parola contro il consumo di suolo, si richiama esplicitamente alle origini del pensiero socialista, da cui molti, incluso il sottoscritto, non possono prescindere, ma si trasmuta rapidamente in una difesa d’ufficio della categoria del borghese piccolo piccolo, del middle-class man a cui deve essere consentito libero accesso al ‘lotto di terreno fabbricabile’ in cui costruirsi il dignitoso domicilio, del proprietario di casa che esprime pienamente il suo status di cittadino in quanto possessore del proprio tetto come, secondo documentate argomentazioni, sarebbe costume per gli europei.

Affermazione non proprio vera, dal momento che in Europa, più che in Italia, la casa in affitto è molto più diffusa della residenza in proprietà, senza che ciò incida in alcun modo sui diritti di cittadinanza di un inglese o di un tedesco … ma non soffermiamoci sui dettagli. Dunque la tesi di Romano è che, applicando i principi egualitari e libertari, un lotto di terra fabbricabile non la si può negare a nessuno. La fantasia vola nelle pieghe del secolo di quel Manzoni, romanziere e agronomo, che immaginiamo assorto a contemplare sconfinate terre costellate di gelsi dalla finestra della sua villa di Cormano Brusuglio. E, sempre divagando tra gli autori che hanno lasciato fertili tracce scritte del sentire del tempo, immaginiamo schiere di aspiranti Thoreau alla ricerca di uno spazio esistenziale, armati dell’entusiasmo dei coloni, in cerca ciascuno del proprio angolo di bosco sulle rive di un qualche lago Walden alle pendici dei monti Appalachi, pardon delle Prealpi, rivendicando il buon diritto a un pezzo di terra in cui costruire una villetta monofamiliare con modesto giardino privato.

Atterrando nel XXI secolo i novelli Thoreau si materializzano nelle facce di tanti studenti, immigrati, giovani coppie, disoccupati, borghesi decaduti, ciascuno in cerca di una ritrovata certezza identificata in una particolare tipologia residenziale, divenuta status symbol nell’incedere del XX secolo, emulando il modello delle case di campagna dei secoli precedenti. Ma i novelli Thoreau sono anche i benestanti che rivendicano il loro buon diritto a una seconda residenza estiva e magari pure a una terza casa da aprire e riscaldare in occasione della settimana bianca e di qualche sporadico week end. Chi può negarglielo? Non certo qualche burbero indigeno delle valli bergamasche: se ha i soldi per comprarsi la casa, ne ha pieno diritto. Se invece il suo reddito non glielo permette, si accomodi in cerca di un lavoro nelle fabbriche o negli uffici della città, come hanno fatto tanti orobici prima di lui, quando l’esplosione delle seconde case ha fatto impennare i valori immobiliari, contribuendo a far spopolare le valli.

A stridere con questa arcadia piccolo-immobiliare c’è solo un dettaglio, o meglio un numero, 10 milioni. Per i coetanei di Thoreau, 10 milioni erano gli abitanti dell’intero territorio degli Stati Uniti d’America. Nel 2012, 10 milioni sono gli abitanti della Lombardia. La terra lombarda è in realtà un angolo congestionatissimo di mondo, con una densità di popolazione tredici volte più alta di quella degli attuali Usa, tripla rispetto a quella cinese e superiore perfino a quella del Giappone. E i milioni di novelli Thoreau che hanno tirato su quattro mura nell’ultimo scorcio di storia lo hanno potuto fare a costo di cancellare per sempre un quarto dell’intera superficie agricola della pianura lombarda, una delle più fertili del mondo. Un lotto dopo l’altro, le campagne di Brusuglio vivono solo nelle stampe dell’epoca di Manzoni.

Tranquilli, nessun lombardo patirà la fame per carenza di raccolti: nel mercato globale i prodotti alimentari viaggiano lontani e, per non farci mancare nulla, potremmo anche acquistare buona terra da coltivare. Magari in Africa: cosa sarà mai un po’ di terra coltivata tolta agli aratri dei contadini del Sud Sudan, rispetto al supremo valore della libertà immobiliare dei lombardi, alla sacralità del diritto intangibile al lotto edificabile? In un attimo di spaesamento, sovviene il racconto di tante parabole discendenti intraprese da regimi politici che, pur rivendicando nei propri atti fondativi un principio egualitario hanno finito, nello sviluppo della loro narrazione, con il legittimare le peggiori iniquità.

Forse può esserci una diversa conclusione, una soluzione che sta tutta dentro le nostre città. Forse il tetto agognato c’è già, basta che il suo proprietario lo collochi nel mercato dell’affitto anziché tenerlo a marcire in attesa di tempi migliori. Oppure può essere costruito, in uno dei tanti spazi sottoutilizzati delle nostre città. Certo, non è facile come tirar su quattro mura in un lotto libero, in città bisogna rispettare un progetto, una estetica urbana. Può anche capitare di dover demolire il vecchio per ricostruirci sopra, o ristrutturare con criterio. Talvolta tocca anche di bonificare i terreni. Insomma, servono valenti architetti, capaci costruttori, amministratori dotati di una visione non decadente dell’evoluzione dell’organismo urbano. E serve anche un sistema di regole che agevoli l’afflusso di investimenti in uno spazio complesso qual è quello cittadino, invece che favorire la fuga di capitali verso lotti fabbricabili in aperta campagna. Ma alla fine si guadagna due volte: si migliora la città, arrestandone il declino, e si salva la campagna, che produce cibo e alimenta la vita: un valore certo non inferiore a quello della libertà di fabbricare.

 

Damiano Di Simine*

 

*presidente di Legambiente Lombardia


 



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