18 settembre 2012

PORTA NUOVA: SOTTO IL VESTITO NIENTE, DI NUOVO


Se è vero che il messaggio semiotico di una struttura è strettamente legato alla nostra esperienza personale e culturalmente al nostro senso estetico, allora sarà possibile che il nostro apprezzamento per essa sia suscettibile di modificarsi nel tempo. Ebbene l’osservazione delle torri nell’area di Porta Nuova / Garibaldi ormai quasi completate, con le loro strutture in cemento armato quasi del tutto avvolte da avveniristici rivestimenti in acciaio e vetro lascia oggi quanto mai interdetti. Il messaggio che vi si potrebbe cogliere è: sotto il vestito niente! Intendendo cioè nulla di nuovo.

A suggerire il cambiamento percettivo potrebbe aver contribuito il combinarsi di due esperienze cronologicamente intrecciatesi tra di loro: quella del recente terremoto, le cui scosse telluriche hanno pesantemente flagellato l’Emilia e sono state avvertite anche in Lombardia e nella città di Milano; l’altra, peculiarmente ambrosiana è conseguenza dell’attuale crisi economica e degli scandali affaristici legati alla “bolla immobiliare”, che hanno reso i cittadini milanesi molto più sensibili agli aspetti microeconomici, tecnologici e ambientali connessi con i grandi progetti urbanistici e infrastrutturali. Per tacere di coloro che lavoratori, commercianti, semplici city users in alcuni casi ancora scontano i disagi connessi direttamente o indirettamente con il prolungarsi dei lavori.

Per quanto attiene al primo aspetto abbiamo scoperto che anche il territorio milanese, classificato come a “bassa pericolosità sismica”, in realtà potrebbe non essere del tutto esente da eventi catastrofali che naturalmente non ci auguriamo ma che l’aggiornamento delle mappe sismiche potrebbero mostrarci essere un elemento di rischio che, almeno le nuove progettazioni, potrebbero dover considerare con maggior attenzione rispetto anche a un recente passato. Premesso che non vi è in chi scrive alcuna preconcetta avversione per il calcestruzzo e per la plasticità della sua espressione estetizzante, quel “brutalismo” che trova in Milano e segnatamente nella Torre Velasca uno dei momenti più alti dell’architettura italiana del secolo scorso, quella che si intende svolgere è una breve riflessione su alcuni aspetti microeconomici legati al differente “ciclo di produzione” che caratterizza le strutture in calcestruzzo, abbondanti in Italia, rispetto a quelle in acciaio tanto diffuse in un paese il Giappone, suscettibile di rischio sismico quasi altrettanto quanto il nostro, il quale si dispiega lungo una zona di convergenza tra due placche geologiche in costante movimento quella africana e quella euroasiatica.

La tradizionale mancanza di strutture in acciaio o in ferro che dir si voglia, in Italia, affonda le radici nella mancanza della materia prima nella penisola italiana, e a parte qualche esempio dei primi del ‘900 soprattutto nel nord Italia già industrializzato, non si hanno numerose testimonianze di strutture in acciaio lungo la penisola. Fatto questo breve cenno storico torniamo alla stretta attualità. Se è giustificabile il cedimento di vecchie costruzioni in muratura lo è molto meno quello di costruzioni che in alcuni casi, come in Emilia o Lombardia avevano pochi anni. Purtroppo non sono pochi i casi di strutture in cemento armato miseramente crollate e ciò può essere addebitabile a cattiva esecuzione o all’impiego di materiali scadenti.

Al contrario il materiale “acciaio” è dotato di una notevole duttilità intrinseca, che consente allungamenti a rottura sempre superiore al 20% e quindi sembrerebbe il materiale ideale in situazioni dove sono richieste elevate deformazioni plastiche. Il risultato è che un evento sismico di pari entità in Giappone provoca poco più che una scrollata di spalle mentre in Italia provoca sciagure tremende. In Giappone gli edifici non solo industriali ma anche per uffici o civile abitazione sono in oltre il 60 % dei casi con struttura in acciaio e questo nonostante il fatto che in Giappone il legno sia ancora il primo materiale da costruzione nell’edilizia residenziale di uno o due piani.

Oggi possiamo notare come nell’area di Porta Nuova / Garibaldi le avveniristiche torri insistano su tradizionali strutture in cemento armato e che il meneghino slancio “futurista” del Progetto venga consegnato a un improbabile “bosco verticale”. Se non sarà ardita impresa per l’architettura certamente lo sarà per la botanica!

I due modelli costruttivi dal punto di vista microeconomico possono essere stilizzati brevemente nel modo che segue. Da una parte il ciclo del cemento: pesante, invasivo, tecnologicamente datato. Dall’altra quello dell’acciaio: “leggero”, riciclabile al 100%, maggiormente resistente alle sollecitazioni sismiche, necessitante di una maggiore quota di personale specializzato. Il professor Monti ricorda spesso che questo paese ha un problema di bassa specializzazione produttiva. Lo sa e lo dice, cosa si faccia per migliorarla quello è ancora “un altro paio di maniche”. Il settore dell’edilizia vale circa il 10% del PIL, innovare tecnologicamente in questo settore sarebbe una leva formidabile per tutto il paese. Sappiamo invece che nel primo modello e in Italia, magna pars del valore aggiunto si condensa rispettivamente nella fasi finanziaria, legale e del marketing: rendita urbana allo stato puro. La fase costruttiva vera e propria è tale tecnologicamente da poter poi essere attuata anche ricorrendo a un “giro” di subappalti a ditte tecnologicamente “mature”.

Il secondo modello, quello dell’acciaio, è caratterizzato da una forte “impronta tecnologica”, dalla ricerca di materiali e soluzioni innovative. Contenimento dei costi e dei tempi di realizzazione che sono cruciali per limitare gli impatti in aree già densamente urbanizzate come Porta Nuova Garibaldi vengono garantiti dalla tipologia di tecnica costruttiva nella quale gli elementi strutturali vengono prefabbricati in officina mediante processi automatici di saldatura per poi essere trasportati in opera per il montaggio. Tale processo richiede elevate competenze di carpenteria metallica, maestranze altamente specializzate e un numero elevato di tecnici. Quel genere di professionalità che Scuola e Università italiane sfornano a profusione e di cui le aziende del settore pare non sappiano proprio cosa farsene. Infine la scalabilità: la struttura dei costi è tale da consentire la competitività anche di aziende di medie dimensioni se dotate di tecnologie innovative e strategie di lavoro e progettazione all’avanguardia.

Ora che sulla rendita urbana in questo paese riposino le ricchezze di pochi e le miserie di molti lo si arguisce anche da un episodio recente passato abbastanza sotto silenzio. Il britannico Daily Telegraph ha definito la Torre Velasca “uno degli edifici più brutti al mondo”. È così che classicamente comincia la fase di “distruzione creatrice” di molte operazione di speculazione edilizia, con la disinformazione. Sarebbe stato bello che un organo di stampa italiano gli avesse risposto con qualcosa di simile a ciò che pronuncia Faysal rivolgendosi a Lawrence nel film Lawrance d’Arabia: “Nella città di Cordoba c’erano due miglia di illuminazione pubblica nelle strade quando Londra era un villaggio”.

 

Vito Antonio Ayroldi



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