5 settembre 2012

EX-PAOLO PINI, MA NON È NORMALE


Immagino sia difficile di questi tempi pensare a un ex manicomio come a una risorsa, se non, forse, in termini volumetrici: quanti metri cubi si potrebbero costruire su un’area di tanti metri quadri, per di più raggiunta dalla metropolitana, in una periferia che si è avvicinata al centro, per di più lambita da una linea ferroviaria con tanto di ammodernata stazione. Ovviamente ho in testa un esempio concreto, quello del Paolo Pini, l’ex manicomio di Milano, tre ettari alla Bovisa, tra edifici e parco, parte utilizzati, parte no, diviso tra varie proprietà pubbliche, a ridosso di quartieri popolari. Ne scrivo perché per ragioni varie mi è capitato di percorrere più volte i viali che dividono le diverse palazzine, un tempo padiglioni che ospitarono fino a mille e duecento malati e dove lavorarono centinaia tra medici, infermieri, inservienti, una città racchiusa da alte mura dove dormire, mangiare, morire, con la chiesa, il convitto delle suore, con l’obitorio.

Camminando, la prima sorpresa è venuta dallo scoprire uno dei rari luoghi di Milano, forse l’unico, da cui non si scorge il profilo della città, l’abitato insomma, le case, neppure i celeberrimi ultimi grattacieli. Come si diceva una volta di uno scorcio di via o di un cortile alberato: “non pare d’essere a Milano”. Solo qualche malmesso ufficio dell’Asl, non peggiore di altri, ma tristemente consegnato a compiti di assistenza agli anziani per lo più inabili, ci riporta alla nostra città e a una sensazione di malinconica impotenza. Poche decine di metri più in là, costeggiando il muro di cinta, una sorta d’arco d’ingresso in legno tinteggiato di giallo annuncia, per fortuna, qualche cosa di diverso. I cancelli d’ingresso sono spalancati. Una volta s’aprivano solo per lasciar passare le bare dei matti defunti lì dentro. Appena lì c’era l’obitorio, che è diventato cucina e ristorante e i tavoli d’estate s’allineano anche sotto gli alberi e sotto un breve portico.

La chiesa mi pare sia riservata al culto cristiano copto. L’ex convitto delle suore è diventato ostello, per chi stava dentro e non ha trovato altra possibilità o per chi arriva da fuori, magari turista dal Giappone. Così. Avanti qualche decina di metri una breve rampa conduce al teatro. Avanti qualche decina di metri ancora e ci si ritrova nel Giardino degli aromi, dove biologicamente si coltivano verdure che si ritrovano poi a tavola. Questo e altro (una stagione teatrale tra le più vive a Milano, musica, dibattiti, libri, eccetera) è merito della cooperativa Olinda, nata sulle “macerie” metaforiche dell’ospedale psichiatrico, pensando ai matti senza casa e senza lavoro, cresciuta aprendosi di fronte a tanti segni di disagio o semplicemente di fronte a una domanda di cultura, di partecipazione, di comunità.

Olinda è un’impresa sociale, unisce capacità imprenditoriale e accoglienza, nel segno dell’imperfezione. Da vicino nessuno è normale, è lo slogan di Olinda. Da vicino nessuno è perfetto. La storia dell’imperfezione me l’ha spiegata Thomas Emmenegger, presidente di Olinda, psichiatra svizzero, rispondendo a una mia domanda a proposito del ristorante. Ingenuamente gli chiedevo una volta perché il ristorante, d’ottima qualità, non giocasse qualche carta ambiziosa, non si mostrasse più “elegante”, ridisegnato da un architetto, risistemato dai giardinieri… non fosse insomma “perfetto”. Ecco la spiegazione: la perfeziona esclude, alla perfezione non si adatterebbe il lavoro di tanti ragazzi e ragazze che cucinano, servono ai tavoli, puliscono, dirigono, appassionati, gentili, premurosi, efficienti, quanto sinceramente, liberamente, imperfetti. L’imperfezione è un valore, è la verità di questo mondo.

Molti conosceranno il Paolo Pini e Olinda. Di sicuro arrivo in ritardo. Se scrivo di Olinda è perché mi piacerebbe “aiutare” Olinda. “Aiutare” non mi piace: ogni “aiuto” rischia di scivolare dall’alto verso il basso. Forse l’unico aiuto lecito è vivere le proprie idee dentro quella realtà. Non so ovviamente se tutti condivideranno le mie impressioni rispetto a una impresa che tiene assieme miracolosamente costi e vantaggi economici, costi e vantaggi sociali, cultura, lavoro, sostegno, solidarietà, comunità, che ha creato in una quindicina d’anni una “piazza” dove lo scambio è continuo, le relazioni si intrecciano, malati e sani, giovani e vecchi, e l’economia è complessa.

Scrivo di Olinda, ai tempi dello spread, perché mi sembra un modello d’altra economia contro quella dei liberi e voraci mercati finanziari, del consumismo diventato anche a sinistra motore essenziale d’ogni benessere (considerando quello materiale l’unico benessere possibile), un modello che conosce il senso del limite (l’imperfezione).

Chiedo, banalmente, se il Comune di Milano e altre istituzioni non debbano discutere queste esperienze anche per riprogettare le proprie politiche (sociali, assistenziali, urbanistiche, culturali); se chi organizza cultura non debba pensare a questi spazi e quindi a un pubblico diverso di quello distrattamente in transito nelle librerie del centro; se l’Expo, che si è voluta sul tema dell’alimentazione, non potrebbe mostrare come esempio milanese il “Giardino dei sapori” o, più ambiziosamente, se il tema dell’imperfezione cioè del limite per un’umanità che deve temere per la propria sopravvivenza non sia divenuto il primo, fondamentale degli argomenti. Se mi sta a cuore la storia e il presente del Paolo Pini e di Olinda, se mi piace credere che qualcun altro ne possa ragionare, è perché mi sembra che il Paolo Pini e Olinda possano rappresentare l’opportunità di immaginare una città diversa, una città che sappia vivere apertamente i propri conflitti e che apertamente ne sappia dibattere, senza nascondere le proprie “imperfezioni” sotto il tappeto, immaginando invece un nuovo “catalogo” delle proprie risorse.

 

Oreste Pivetta

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti