5 giugno 2012

LETTERA APERTA AGLI “SCOPERCHIATORI FACILI” DEI NAVIGLI/2


Chiudevo il mio pezzo della settimana scorsa con le opinioni espresse dal Podestà di Milano Marcello Visconti di Modrone negli anni ’30 del secolo scorso, che definiva la chiusura dei Navigli “un atto dovuto”. Come si vede la questione della progressiva, prima frazionata, poi estesa a tutta la rete interna, copertura del Naviglio, non può essere capita se non la si pone in relazione con la comprensione e la conoscenza della contemporanea crisi e decadenza del complessivo sistema di trasporto dei Navigli storici che la accompagna e della nascente ricerca di nuove alternative di trasporto e di assetto urbano.

Si potrebbe discutere a lungo sulla opportunità o meno, sia sotto il profilo tecnico o culturale, di questa scelta podestarile e anche sollevare il dubbio che questa decisione rappresentasse veramente la necessità e l’urgenza di un atto dovuto. Molti tecnici e studiosi illuminati si erano già del resto resi conto, nella seconda metà dell’Ottocento, del fatto che la crescente volontà di arrivare a una chiusura del Naviglio per una sua trasformazione in strada o altro avrebbe dovuto essere stata fatta precedere dalla realizzazione di un ramo o raccordo di congiunzione della Darsena di Porta Ticinese col Naviglio della Martesana.

Tra questi vanno senza dubbio ricordati i due progetti presentati dell’ingegner Carlo Mira. Un primo, del 1858, dal titolo “Sulla possibilità di trasportare fuori dalle mura di Milano il canale detto Naviglio” che prevedeva di trasportare il nuovo Naviglio necessario per congiungere i rami sud con i rami nord, lungo i Bastioni a est della città sfruttando il Redefossi, mentre non mancava di prevedere, contemporaneamente, di trasformare la Fossa interna in un “boulevard”. E un secondo, ponderoso, del 1865, accompagnato da ben 111 tavole e una relazione di 4 volumi, che progettava la congiunzione tra la Martesana e i rami dei Navigli a sud, creando un nuovo tratto di Naviglio in tunnel sotto il Naviglio morto e sino al Castello, per congiungerlo, via Naviglio di San Gerolamo e Naviglio Vallone, con la Darsena. Come pure non va dimenticato il progetto del colonnello Gandini e del pittore – architetto Giovanni Brocca che proponevano la trasformazione della cerchia in una ippovia a doppio binario (1864-73).

E pure va ricordato il progetto dell’ingegner Francesco Ajraghi del 1874. Ben più audace, dal punto di vista idraulico, del progetto del Mira, l’idea dell’Ajraghi consiste nella proposta di costruire un “Canale intorno a Milano” articolato in due rami a est e a ovest della città, una specie di ampia circonvallazione dei Navigli. La nuova Darsena viene spostata nei pressi della Cassina di Pomm dove confluisce la Martesana e un alimentatore d’acqua derivato dal Villoresi e dove si dipartono i due canali di levante e di ponente. La ricongiunzione dei due rami col Naviglio di Pavia viene prevista circa all’altezza di Conca Fallata. I vantaggi della soluzione sono molto evidenti: si eliminano del tutto i Navigli entro Milano, si costruiscono due rami del tutto “moderni” e anche eventualmente ampliabili, si aumenterebbe la portata delle acque e gli introiti derivanti dalla loro vendita.

Ma è qui evidente l’obbligo di riferirsi a come viene affrontato il problema del destino della Fossa interna anche nella più importante scelta urbanistica di ordine generale di fine Ottocento, ovvero nel “Progetto di Piano Regolatore della città di Milano” di Cesare Beruto (1884-89). Anche il Beruto sostiene la necessità di sopprimere la Fossa, sia per le note questioni igieniche che richiama ampiamente (Salus publica suprema lex scrive nella sua relazione) sia perché è sua intenzione trasformarla in un sistema fognario modello tout-à-l’égout come a Parigi, sia perché denuncia, come già detto, che il barcheggio di transito è oggi ridotto a una cifra insignificante.

Ma soprattutto il suo obiettivo è quello della “trasformazione della zona della Fossa nella più bella, continua ed elegante via anulare della città“, non dimenticandosi però della necessità di mantenere vivo e utilizzabile una congiunzione con la Martesana secondo il progetto del Mira del 1865, che riprende e ripropone negli stessi termini. L’errore che compie il Comune di Milano con la sua precipitosa scelta del 1929 risulta dunque imperdonabile: procedere alla soppressione del Naviglio interno senza aver pensato e predisposto una congiunzione con la Martesana significa spezzare irrimediabilmente in due l’intero sistema con le conseguenze che si scontano ancora oggi.

Si può discutere se questa scelta di Milano sancisca definitivamente l’abbandono di questo mezzo di trasporto o se solo lo acceleri o sia solo un sintomo, pur importante, della consapevolezza di una ormai prossima fine del sistema o segno della affermazione progressiva degli altri sistemi di trasporto innovativi. Non si può comunque non riconoscere che tutte le iniziative di rilancio della navigazione interna degli anni successivi finiranno nel nulla: dai programmi rilanciati con ampio respiro da Bassetti nel 1963 con la mostra “Vie d’acqua da Milano al mare“, al progetto del canale Milano – Cremona – Po, al progetto del Porto di Mare e così via, sino a oggi.

Penso che gli “scoperchiatori facili” non possano non fare i conti, prima di lanciarsi in azzardate ipotesi di rilancio della navigazione di trasporto, con il significato e la portata della decadenza di questo decaduto e perduto sistema. Mentre rimangono tuttora ancora aperte, urgenti e ricche di potenzialità operative tutte le possibilità di recupero per i Navigli esterni sopravvissuti – e che ne hanno urgente bisogno – basata su una strategia rivolta al loro futuro recupero e riutilizzo indirizzato verso la sola navigazione “slow” per fini culturali e da diporto, per lo sport, lo svago e il tempo libero, per il potenziamento dell’irrigazione, per lo sfruttamento energetico dei salti delle conche, per l’allevamento ittico. Strategia più volte indicata e sollecitata, se pur con scarso impegno, dalla Regione Lombardia.

3.

Molti “scoperchiatori” ingenui o non bene informati credono di poter compiere una operazione relativamente semplice e immediata: si toglie il “coperchio” ed ecco che sotto riappaiono intatti tutti i Navigli nel loro splendore di un tempo, con tanto di acqua pronta per una ripresa della navigazione. Evidentemente non conoscono tutte le manipolazioni e le alterazioni che il manufatto sepolto ha subito negli anni compresi tra la sua sepoltura e oggi e non sono pertanto in grado di valutare le enormi difficoltà e gli immani costi che si dovrebbero sopportare nell’ipotesi di un loro scoperchiamento.

Vediamo di elencarle e descriverle brevemente. Il sistema di copertura della Fossa interna era stato realizzato negli anni 1929 – 30 con strutture diverse, costituite per lo più mediante un sistema di travi e solette armate con travi di ferro a doppio T, poggianti su due o tre file di pilastrini d’appoggio verticali, che venivano a modificare anche la sezione idraulica del Canale (dividendola in uno, due e anche a tre canali).

Questo sistema di copertura era durato sino agli anni ’50 del dopoguerra, quando l’aumentato traffico automobilistico lungo la Cerchia, ma soprattutto l’azione aggressiva e corrosiva dovuta alle acque e agli scarichi industriali provenienti dal Seveso, incominciano a colpire e ammalorare le strutture della Fossa, rendendole pericolose, instabili e cedevoli. Le sezioni resistenti del calcestruzzo e del ferro dell’armatura incominciarono a indebolirsi, rompersi e sgretolarsi, sotto l’azione delle acque inquinate e dei vapori da esse generate e a ragione anche dei complessi processi fisico – chimici, elettrochimici e batterici che si sprigionavano all’interno. L’ammaloramento, a partire da questi anni, si estende rapidamente alla intera Fossa interna, così che il Comune di Milano si trova costretto, nel 1967, a insediare una Commissione di esperti per studiare soluzioni adeguate ma anche a chiudere il traffico su tutte le strade sovrastanti.

Dopo aver ipotizzato diverse soluzioni tecniche, la Commissione opta per una soluzione che prevede il riempimento della Fossa con materiale sciolto (limo, cemento e acqua, presto sostituito, dopo una prima sperimentazione, con sabbia fine del Ticino, cemento e acqua) immesso tramite aria compressa. Questa soluzione (che sarà anche battezzata “la banca della sabbia”) viene preferita, oltre perché rapida e meno costosa, anche perché non pregiudicante l’eventuale riutilizzazione del vano sotterraneo per eventuale realizzazione di linee metropolitane, sottovie, parcheggi o altre opere.

Nel 1970 viene infine costruita una grande opera idraulica, detta anche “ponte del gomito”, necessaria per deviare in Redefossi le acque di Martesana e di Seveso che prima entravano unite in città ad alimentare la Cerchia interna. Opera che si trova sotto terra, ubicata tra Monte Grappa, Melchiorre Gioia e i Bastioni di Porta Nuova. A questo punto i navigli rimangono completamente privati dell’acqua.

Ma il manufatto sepolto incomincia a essere interessato anche dai lavori di costruzione della rete delle metropolitane. Il caso più evidente è quello del Naviglio di San Gerolamo (via Carducci – Sant’Ambrogio) dove il manufatto del canale viene distrutto completamente e occupato dalla linea Verde. Ma altre alterazioni possibili (tutte da verificare puntualmente nel caso di un progetto concreto di scoperchiamento) potrebbero derivare da altri incroci quali quelli con la linea Rossa, che taglia la Cerchia all’incrocio tra Senato – corso Venezia e quelli con la linea Gialla in corrispondenza con gli incroci di Fatebenefratelli – archi di Porta Nuova e in corrispondenza del congiungimento Santa Sofia – Francesco Sforza. Non sappiamo dunque con certezza se l’alveo dei Navigli sepolti sia ancora esistente, pienamente o solo parzialmente riutilizzabile.

Ma ci sono anche altri aspetti da verificare: gli effetti che si ripercuoterebbero sulla viabilità e sul trasporto cittadino nella ipotesi di una sottrazione di spazio e dimensione alla circonvallazione interna (vera linea di forza per il trasporto urbano); tutte le varie tipologie di occupazioni materiali dell’alveo da parte dei sottoservizi delle abitazioni o edifici che si affacciavano direttamente sul Naviglio, costruiti dal dopoguerra a oggi; il problema delle acque del Seveso che ancora esonda spesso e volentieri, la ricostruzione delle conche e dei ponti, e così via. Si tenga conto che a tutt’oggi nessuno ha ancora prodotto un calcolo completo, preciso e analitico della fattibilità, dei costi e dei tempi di una simile ipotesi di intervento.

4.

Il quarto punto è molto breve anche perché esprime solamente una mia personale, e quindi opinabilissima, convinzione. Penso che il risultato e l’esito estetico – urbanistico e paesistico dell’operazione ipotizzata non possa recuperare nulla dell’antica bellezza illusoriamente ricercata o pretesa. La bellezza e il fascino dei Navigli ottocenteschi nasceva dallo stretto rapporto che si creava tra un Canale vivente e animato dall’uso e dal lavoro, gli edifici che vi si affacciavano concepiti per essere in funzionale simbiosi con i servizi e le utilità prestate dal Naviglio, la forma e il tipo degli edifici ricchi (le ville e i palazzi), poveri (le lobbie) e di lavoro (le sciostre) nati in funzione del Canale, il loro riflesso nell’acqua (anche se poco limpida), il senso di una vita urbana e sociale autentica. Un contesto e un rapporto irriproducibile e definitivamente scomparso. E non ricreabile in una città che non li ha più voluti per troppo tempo e ne ha distrutto quasi ogni traccia.

 

Gianni Beltrame

 



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