22 maggio 2012

arte


 

L’ECCE HOMO DI GIULIO CESARE PROCACCINI

Al Museo Diocesano di Milano è esposto, ancora per una settimana, un dipinto misterioso, l’Ecce Homo di Giulio Cesare Procaccini. Dopo i grandi successi del ciclo “Un capolavoro per Milano”, iniziativa che porta in museo, ogni anno, un capolavoro di arte sacra proveniente da un importante museo italiano, si è voluto riproporre l’esperimento anche in un altro periodo, da Pasqua fino a maggio. Ecco dunque l’Ecce Homo, dipinto proveniente da collezione privata e che è “invitato” a dialogare con un’altra opera dello stesso Procaccini appartenente alle collezioni permanenti del museo, la Pietà.

Su questo Ecce Homo si sa ben poco in realtà. Gli studiosi lo attribuiscono al periodo giovanile dell’artista, nato a Bologna nel 1574 ma già attivo a Milano come scultore per alcuni dei cantieri più prestigiosi dell’epoca, come quello del Duomo o di Santa Maria presso san Celso. Abbandonata la scultura, si dedica alla pittura, passione per la quale viaggerà molto per i principali centri italiani, in costante aggiornamento e confronto con gli altri grandi dell’epoca, come il Cerano, Correggio, i Carracci, Barocci e tanti altri.

Nell’Ecce Homo, pur riprendendo un impianto iconografico di stampo bolognese, l’artista, nella delicata resa della dolente figura di Cristo, si ispira innanzitutto all’Ecce Homo di Correggio della National Gallery di Londra. Per la figura dello sgherro che solleva il velario, il riferimento principale sembra invece lo studio naturalistico condotto da Ludovico Carracci, suo concittadino illustre.

L’originalità del Procaccini si riscontra nella figura di Ponzio Pilato, la cui vitalità rimanda direttamente alla densità cromatica veneta e il contatto diretto con la pittura di Rubens. È infatti verosimile che Giulio Cesare avesse ammirato il dipinto del grande maestro fiammingo raffigurante L’incoronazione di spine già nella chiesa di Santa Croce di Gerusalemme a Roma, con la quale l’Ecce Homo del Procaccini trova più di un riscontro nella resa cromatica e luministica, oltre che nell’analoga figura dello sgherro in controluce sulla sinistra.

E allora l’Ecce Homo potrebbe davvero essere la prima significativa opera del Procaccini a Milano, senza la quale sarebbe difficile spiegare le ragioni della prestigiosa commissione all’artista, in concorrenza col Cerano, di opere per l’importante chiesa milanese di San Celso, per la quale nel 1602 è chiamato a dipingere alcune figure di profeti e sibille, che lasciano emergere tratti di una sorprendente modernità, evidenti in particolare nell’illusionismo luministico e naturalistico. Così come, verosimilmente, questa commissione portò a quella, ancor più prestigiosa, nel 1610, di ben sei quadroni dedicati a san Carlo per il Duomo di Milano, realizzato in concomitanza della canonizzazione del Borromeo.

Accompagna la mostra un catalogo inedito con saggi di Bora, Dotti e Bussolari.

Ecce Homo di Giulio Cesare Procaccini – Museo Diocesano, fino al 27 maggio, orari: dal martedì alla domenica, 10-18 Ingresso al Museo: intero: 8 euro; ridotto 5 euro

 

 

GLI ELEMENTI DI BRUEGHEL IL VECCHIO

Rizómata è la parola greca che significa “radici”. La usò il filosofo Empedocle, vissuto a metà del V secolo a.C., per indicare i quattro elementi fondamentali da cui sarebbe costituito l’universo intero: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra. Rizómata è anche il titolo della mostra presso la Pinacoteca Ambrosiana, che, dopo più di 200 anni, riunisce quattro capolavori di Brueghel il Vecchio.

I quattro elementi sono dipinti su rame creati tra il 1608 e il 1621, appositamente per il cardinale Federico Borromeo, già fondatore della Biblioteca e della Pinacoteca Ambrosiana. Una amicizia di lunga data, iniziata nel 1592 a Roma, legava questi due grandi personaggi, che si rincontrarono a Milano tre anni dopo, prima che Brueghel tornasse definitivamente ad Anversa.

Questa amicizia ci è nota grazie al carteggio epistolare rimastoci, esposto in mostra, che illustra anche la genesi dei quattro dipinti. Il cardinale Federico, parlando di queste opere, le definiva di gran pregio e fonte di grande stupore, ricolme di dettagli e di meraviglie naturalistiche.

I quattro elementi rimasero in Pinacoteca fino al 1796, quando Napoleone li requisì insieme al Codice Atlantico di Leonardo e al manoscritto appartenuto a Petrarca, con le opere di Virgilio. Non è un caso dunque che, insieme a questi due capolavori assoluti, i francesi si fossero presi anche i quattro preziosi dipinti. Con la caduta di Napoleone si affrontò anche il destino delle opere d’arte trafugate. Canova, emissario italiano, ottenne la restituzione di solamente due dei quattro dipinti: l’allegoria del Fuoco e dell’Acqua, mentre l’Aria e la Terra rimasero a Parigi.

È ancor più di interesse dunque vederli oggi tutti riuniti, uno accanto all’altro, così come si presentarono agli occhi del cardinal Borromeo, in un succedersi organico di suggestioni e dettagli. Nell’allegoria del Fuoco, elemento indomabile, un incendio si sviluppa su un monte, mentre una fucina di fabbri forgia armi e armature lucenti, in una sorta di caotico museo, mentre tutto intorno creature demoniache si librano nell’aria.

L’allegoria della Terra sembra invece una sorta di Paradiso terrestre in cui animali di ogni specie e taglia, predatori e vittime, stanno l’uno accanto all’altro, in una vegetazione rigogliosa e fiorita. E in effetti questa opera dialoga anche con gli altri due dipinti fioriti di Brueghel, esposti sempre in Pinacoteca: i Fiori in un bicchiere e il Vaso di fiori, esposti nella sala VII.

L’allegoria dell’Acqua ci mostra invece un paesaggio quasi lacustre, con pesci, crostacei e molluschi, in cui una vecchia divinità è seduta accanto ad un giovane, con conchiglie che sgorgano acque fresche. L’arcobaleno richiama un mondo primordiale, quasi l’alba della Creazione. L’Aria è l’allegoria che ha in sé il più forte elemento mitologico, con al centro una dea vestita solo da un drappo rosso, circondata da una miriade di volatili e da puttini che giocano con strumenti astronomici. Questo fu l’ultimo dei quattro elementi ad essere dipinto ed anche quello che più, disse il cardinal Federico, lo aveva perfuso tutto di gioia.

Piccole enciclopedie del tempo, quasi “miniate” con la precisione e l’amore per i dettagli tipici dei pittori fiamminghi. “Quando il cardinal Federico Borromeo commissionò a Jan Brueghel i dipinti pensava alla Natura come luogo dove era possibile leggere l’impronta del Creatore – spiega il curatore Marco Navoni – Anzi, dalla Creazione era possibile e doveroso risalire al Creatore stesso, secondo quanto afferma san Paolo, all’inizio della lettera ai Romani, dove si legge: «Dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinit໓.

Ecco perché queste allegorie, di sapore un po’ profano ma commissionate da un uomo di Chiesa, risultano così dense di significato ed erano così amate dal cardinale stesso. Un’occasione per vederle riunite, fino al 1 luglio, prima che vengano separate di nuovo, così come già le vicende napoleoniche imposero.

Rizómata Terra, Aria, Acqua, Fuoco – Il Ritorno di Brueghel all’Ambrosiana Pinacoteca Ambrosiana. Fino al 1 luglio 2012 Orari: Da Martedì a Domenica dalle 10.00 alle 19.00 Prezzi: Solo mostra RIZÓMATA: Intero: 5 €, Under 14: 0 € (accompagnati da adulto) Mostra RIZÓMATA + Pinacoteca + Mostra Leonardo Codice Atlantico: Intero: 15 €, Ridotto: 10 €

 

 

LE CERAMICHE DI AI WEIWEI

Lisson Gallery, storica galleria londinese, ha aperto i battenti a Milano nel settembre 2011. Un evento che ha creato scompiglio e meraviglia, in tempi di crisi globale. Diretta da Annette Hofmann, la nuova filiale Lisson è situata in via Zenale 3, in un bel palazzo vicino a Santa Maria delle Grazie, in uno spazio bianchissimo circondato da un bel parco privato.

Dopo le mostre dedicate a Julian Opie e John Latham, fino al 25 maggio sarà possibile visitare la nuova esposizione della galleria, dedicata all’artista cinese Ai Weiwei, personaggio noto non solo per i suoi lavori, ma anche per delle tristi vicende politiche. Weiwei fu infatti imprigionato dalla polizia cinese, nel 2011, ufficialmente per motivi fiscali, ufficiosamente per il suo lavoro sovversivo e critico verso la Repubblica popolare cinese.

La mostra milanese è dedicata per lo più alle opere realizzate in ceramica nel 2006, tecnica questa che Ai Weiwei studia e conosce grazie a un lungo e inteso periodo di lavoro a Jingdezhen, città cuore della produzione cinese di ceramiche. Grazie alla riflessione su questo materiale è nata anche l’opera Sunflower Seeds, installazione realizzata dall’artista per la prestigiosa Tate Modern di Londra.

Weiwei non è nuovo all’uso di materiali come la ceramica. Molte sue opere sono state realizzate adattando, dipingendo e distruggendo antichi vasi e urne, in una sorta di modernissimo ready-made. Non è questo però il caso, visto che in mostra ci sono pezzi unici, fatti a mano, che non mistificano ma anzi rendono onore a una delle più importanti e antiche tecniche cinesi. Il valore storico e culturale delle tecniche e dei materiali utilizzati è un elemento essenziale nel lavoro dell’artista, che li rielabora poi nella sua personale visione.

E allora ecco gli affascinanti Watermelons (2006), rappresentazioni realistiche di due angurie tonde e monumentali, realizzate a mano in ceramica e dipinte. Esattamente come Sunflower Seeds (semi di girasole) della Tate, la creazione di queste opere risponde alla tradizione cinese legata all’imitazione delle forme naturali. Anche Oil Spill (2006), attraverso l’uso di una lucidissima ceramica nera, riproduce familiari ma allo stesso tempo minacciose pozzanghere di petrolio greggio, disseminate sul pavimento bianco della galleria. L’opera Bubble (2008), presentata in mostra in una versione minore rispetto a quella già esposta a Miami, è composta da sei sfere di porcellana blu lavorate a mano. A Miami le sfere erano ben cento. Un filone simile lo segue Pillar (2006), una sorta di monumentale forma geometrica blu che si staglia nel cortile interno della galleria.

Ultime opere in ceramica sono i Ghost Gu (2007), in cui Weiwei rifà un particolare vaso della dinastia Yuan e che porta l’attenzione sulla tematica del falso fatto “ad arte”. Infine, Marble Plate (2010) rappresenta un grande piatto di marmo bianco, altro materiale sperimentato nella produzione degli ultimi anni di Ai Weiwei. Ultimo e importante lavoro dell’artista è la realizzazione, insieme a Herzog & de Meuron, del Padiglione 2012 della Serpentine Gallery di Londra, altra istituzione iconica e fondamentale dell’arte contemporanea europea.

Ai Weiwei – fino 25 maggio 2012, Lisson Gallery via Zenale 3 – Orari: da Lunedì a Venerdì: 9.30 – 13.00 e 15.00 – 18.00 Ingresso gratuito

 

 

MARLENE DUMAS TRA STELLINE E PASOLINI

Sorte è una parola triste. Destino è un po’ meglio. La Libertà è incastrata tra le due. Più invecchi, più ti muovi verso le ultime possibilità“. Così Marlene Dumas racconta la sua ultima fatica, “Sorte“, la mostra creata per la Fondazione Stelline di Milano. Quindici le opere nuove e inedite che l’artista sudafricana, olandese di adozione, ha creato o scelto appositamente per adattarle al luogo dell’esposizione. Pasolini, Cristo in croce, Amy Winehouse e le piccole ospiti dell’antico orfanotrofio sono alcuni dei soggetti scelti dalla Dumas per raccontare le vite e i destini interrotti, ma non dimenticati, dei suoi protagonisti. Un intreccio indissolubile tra l’antico ex convento, diventato ricovero per bambine abbandonate, e i dipinti dell’artista.

Invitata dalla Fondazione Stelline, Marlene Dumas ha consultato il vasto archivio fotografico della Fondazione e ha scelto tre immagini risalenti agli inizi del Novecento per trarne altrettanti dipinti. Nel primo una classe di ragazzine riunita intorno alla loro insegnante: vestite coi grembiuli chiari, sedute o in piedi, attorniano la maestra in abito scuro e guardano verso di noi, i volti quasi cancellati dal tempo ed evanescenti. Le altre due immagini, intitolate “Stellina” e “Destino“, ritraggono invece due bambine, le “stelline” appunto, come erano chiamate le ospiti dell’orfanotrofio, con la divisa usata nelle uscite ufficiali. “Stellina e Destino mi ricordano una fotografia di mia madre da bambina. Vecchie immagini di giovani ragazze, che oggi non fanno più parte di questo mondo, ma che allora avevano ancora il futuro e la fortuna intatti davanti a loro“, spiega la Dumas stessa. Il passato non si può distruggere, è sempre presente, come sempre sarà, in questi luoghi, lo spirito di tutte le stelline che ci hanno abitato.

Altro filone tematico dell’esposizione è Pier Paolo Pasolini, al quale la Dumas aveva già dedicato fra il 1989 e il 1990 la Pasolini Series. Un confronto/scontro tra i crocifissi della serie “Forsaken” (con riferimento alle parole che Cristo in croce rivolge al Dio padre: “Perchè mi hai abbandonato?”) e i ritratti del grande regista – scrittore: come il crocifisso mostra l’abbandono del Figlio da parte del Padre e quindi il senso di solitudine e vuoto, Pasolini, figura tragica a causa della sua morte violenta, è tuttavia ritratto accanto alla madre Susanna, in una contrapposizione tra il rapporto paterno, legato alla morte, e quello materno legato alla vita.

Ma c’è anche un’opera che combina e riunisce insieme questi rapporti: la Pietà Rondanini di Michelangelo, con una madre straziata dal dolore che tenta di sostenere il peso, troppo grande, del corpo morto del figlio, quasi per inglobarlo di nuovo in sé. Nella visione laica di Marlene Dumas però il crocifisso e la Pietà non sono simboli religiosi ma “segni universali in cui la fede si unisce alla tragedia, e l’amore interagisce con il dolore“, spiega il curatore Giorgio Verzotti.

A questi personaggi storici si aggiunge anche la cantante da poco scomparsa Amy Winehouse, morta quando la Dumas stava portando a completamento la serie dei Forsaken. Una ragazza troppo fragile, nonostante gli eccessi, e che diventa simbolo e immagine di un dolore e una sofferenza portati all’esasperazione.

Conclude l’esposizione il film “Miss Interpreted (Marlene Dumas)” (1997), realizzato e diretto da Rudolf Evenhuis e Joost Verhey, in una versione postprodotta in italiano appositamente per la mostra.

MARLENE DUMAS fino al 17 giugno 2012, Fondazione Stelline corso Magenta Milano orari: martedì – domenica, 10 – 20, biglietti: intero € 8; ridotto € 6; scuole € 3.

 

 

ASPETTANDO IL MUSEO: GLI ARTISTI DI ACACIA

ACACIA – Associazione Amici Arte Contemporanea, è un’associazione privata che riunisce al suo interno collezionisti e amanti d’arte, e che, nel suo insieme, incarna una sorta di super collezionista, attivo e attento alle tendenze artistiche. La promozione e il sostegno dell’arte e del lavoro di giovani artisti italiani è tra gli scopi principali dell’associazione, ed è per questo motivo che, fin dalle sue origini, nove anni fa, il nucleo di opere comprate dai singoli collezionisti e messo a disposizione dell’associazione ha un grande e mirabile scopo: la creazione di una collezione di opere d’arte contemporanea da esporre a Milano nel futuro e presto auspicabile museo di arte contemporanea.

Ecco dunque nascere la seconda edizione della mostra, esposta a Palazzo Reale, comprendente circa trenta opere di artisti internazionali e di primissimo piano: Mario Airò (vincitore della prima edizione del Premio ACACIA), Rosa Barba, Vanessa Beecroft, Gianni Caravaggio, Maurizio Cattelan, Roberto Cuoghi, Lara Favaretto, Francesco Gennari, Sabrina Mezzaqui, Marzia Migliora, Adrian Paci, Paola Pivi, Ettore Spalletti, Grazia Toderi, Luca Trevisani, Marcella Vanzo, Nico Vascellari e Francesco Vezzoli. Opere d’arte che esplorano, com’è tipico dell’arte contemporanea, tutti i medium e i supporti possibili: dalla fotografia ai video, dalla pittura alla scultura fino all’installazione.

Aprendo al pubblico la nostra raccolta vogliamo certamente proporre un evento culturale strettamente connesso al tempo che stiamo vivendo ma, nello stesso momento, iniziare un dialogo attivo e propositivo, perché l’arte contemporanea non rimanga appannaggio di pochi, bensì sia promossa, conservata e tutelata“. Questo il proposito di Gemma de Angelis Testa, presidente e fondatrice di ACACIA.

Una sorta di mecenatismo collettivo dunque, tutto a favore della città, che permette da una parte di comprare arte per il futuro museo, e dall’altra la conoscenza e la promozione dell’arte e degli artisti più importanti del panorama contemporaneo, con l’obiettivo di essere “capace di rispecchiare la contemporaneità e le sue dinamiche, un polo divulgativo in grado di trasmettere al suo pubblico formato da vari livelli culturali, la conoscenza dell’arte“, conclude De Angelis Testa.

La mostra presenta anche per la prima volta al pubblico il lavoro di Rosa Barba, vincitrice del Premio ACACIA 2012: “Theory in order to Shed Light“. I suoi lavori, definiti sculture filmiche, sono il mezzo con cui l’artista ama esprimersi, attraverso l’uso del video che viene smembrato nei suoi elementi strutturali: parole, musica, immagini e luce. La parola è la parte che più interessa Rosa Barba: frasi intere o testi vengono proiettati sulle pareti, accompagnati dal commento di voci fuori campo o dalla musica, utilizzando vecchi proiettori cinematografici collegati a strumentazioni di moderna tecnologia.

In attesa dei grandi lavori, anche museali, per l’Expo 2015, accontentiamoci per ora di avere un assaggio d’arte di quello che vedremo in più adeguata sede.

Gli artisti italiani della Collezione ACACIA – Associazione Amici Arte Contemporanea Palazzo Reale fino al 24 giugno. Ingresso gratuito Lunedì: 14.30_19.30 Martedì, Mercoledì, Venerdì e Domenica: 9.30_19.30 Giovedì e Sabato: 9.30_22.30

 

 

LAZZI E SBERLEFFI DIPINTI

Dario Fo è un personaggio da tutti conosciuto. Uomo di teatro, Nobel per la letteratura, critico ironico sulla società e i suoi vizi. Non tutti sanno, però, che Dario Fo è anche pittore. Un amore di lunga data, quello con la pittura, iniziato da giovane durante i suoi anni passati all’Accademia di Brera. Milano, sua città di adozione, gli dedica una grande retrospettiva artistica, in cui sono presentate ben 400 opere create dall’artista durante la sua lunga vita. I lavori di Fo sono tutti caratterizzati da una grande varietà di stili e tecniche: le pitture dei primi anni, i collages, gli arazzi, fino ai monumentali acrilici più recenti. In mostra anche oggetti di scena, maschere, marionette e burattini, tra cui quelli storici appartenuti alla famiglia Rame.

Nutrita la presenza di disegni, schizzi, acquarelli, bozzetti di costumi, fondali, ampie scenografie, locandine e stampe che hanno caratterizzato la vita teatrale della coppia Fo-Rame. Invenzioni personalissime, come i dipinti in cui compare Roberto Saviano e i dipinti a tema politico e satirico, ma anche opere che sono un omaggio e una rilettura della storia dell’arte e dei suoi maestri.

Si parte dalle vere origini, la preistoria, con i lavori ispirati alle incisioni rupestri ma “ai giorni nostri”, attraversando i linguaggi della classicità greca e romana sino alla preziosità dei mosaici ravennati e bizantini. L’interesse di Dario Fo per l’arte del Medioevo e del Rinascimento è testimoniato dai lavori che celebrano i rilievi scultorei del Duomo di Modena e di Parma, insieme agli studi e alle lezioni-spettacolo su Giotto e Pietro Cavallini, Mantegna, Giulio Romano, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Correggio e Caravaggio. Si arriva fino a Tiepolo e la storia dell’arte si interrompe per far posto all’opera teatrale di Rossini e al teatro di Molière.

La mostra si conclude poi con una sezione dedicata alla formazione artistica di Fo, dai primi studi sul lago Maggiore fino al trasferimento a Milano, con la frequentazione dell’Accademia di Brera, dove incontrò maestri fondamentali come Achille Funi, Carlo Carrà e Aldo Carpi. Durante il percorso venti schermi documentano sala per sala la mostra, attraverso le lezioni spettacolo tenute da Fo e Franca Rame, con anche una sala di proiezione, dove saranno visibili le rappresentazioni teatrali e i film creati dal duo di vita e d’arte.

Grande successo ha riscosso nelle scorse settimane anche l’iniziativa “Bottega d’artista”, un vero e proprio spazio in cui si è ricreato, all’interno della mostra, il laboratorio creativo in cui lavora Fo, e che ha portato quasi duemila persone a contatto con l’artista e i suoi collaboratori, per mostrare dal vero come nascono i disegni e i dipinti che porteranno poi ai canovacci rappresentati in scena. La “Bottega d’artista” farà parte del percorso espositivo fisso, mostrando strumenti e trucchi usati nella realtà da Fo per creare i suoi dipinti.

Dario Fo a Milano. Lazzi, sberleffi, dipinti“. Fino al 3 giugno Orari: Lunedì 14.30 – 19.30. Martedì, mercoledì, venerdì, domenica 09.30 – 19.30. Giovedì e sabato 09.30 – 22.30 Costi: 9 € intero 7,50 € ridotto

 

 

MARINA IS PRESENT

Questa settimana il mondo dell’arte milanese ha mormorato sempre e solo un nome: Marina. E la signora in questione è riconosciuta internazionalmente come la regina delle performer, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997, creatrice di performance scandalose e provocatorie. Va in scena Marina Abramović.

Si è aperta con grande eco internazionale “The Abramović Method”, un evento a metà tra la retrospettiva e la presentazione di un grande, impegnativo nuovo lavoro dell’artista serba. Questo nuova opera nasce da una riflessione che Marina Abramović ha sviluppato partendo dalle sue ultime tre performance: The House With the Ocean View (2002), Seven Easy Pieces (2005) e The Artist is Present (2010), esperienze che hanno segnato profondamente il suo modo di percepire il proprio lavoro in rapporto al pubblico.

“Nella mia esperienza, maturata in quaranta anni di carriera, sono arrivata alla conclusione che il pubblico gioca un ruolo molto importante, direi cruciale, nella performance”, dichiara la Abramović. “Senza il pubblico, la performance non ha alcun senso perchè, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”.

E allora ecco che questa volta il pubblico diventa totalmente protagonista e attore. Una ventina di “volontari”, guidati dalle indicazioni della Abramović e dei suoi assistenti, prendono posto in installazioni che ricordano le tre principali posizioni usate dall’uomo: lo stare in piedi, sdraiati o seduti. Seguendo le indicazioni dell’artista, vestiti di camici bianchi e di cuffie insonorizzanti, i protagonisti dell’Abramović Method sono tenuti a stare 30 minuti in ogni posizione, in un percorso fisico e mentale il cui scopo è quello di espandere i propri sensi, osservare, imparare ad ascoltare e ad ascoltarsi.

Ma anche il pubblico è protagonista. Per enfatizzare il ruolo ambivalente di osservatore e osservato, di attore e spettatore, centrale ai fini del concetto stesso di performance, Marina Abramović mette alla prova il pubblico anche nell’atto apparentemente semplice dell’osservazione: una serie di telescopi permettono infatti ai visitatori di osservare dall’alto della balconata del PAC i protagonisti dell’evento, concentrandosi su alcuni particolari.

Una scelta non facile quella di partecipare alla performance, che richiede grande forza di volontà e anche un pizzico di resistenza fisica, oltre che la consapevolezza di “donare” un paio d’ore del proprio tempo all’arte e alla riflessione sulle nostre percezioni.

Ma d’interessante c’è anche il lavoro “The artist is present“, video e riproduzioni della monumentale performance del 2010 che la Abramović fece al MoMA di New York. Per tre mesi, sette ore al giorno, la Abramović è stata immobile e in silenzio davanti a oltre 1400 persone che, una alla volta, hanno avuto l’occasione di sedersi davanti a lei, seduta in assoluto silenzio a un tavolo nell’atrio del museo. I visitatori potevano sedersi di fronte a lei per tutto il tempo desiderato, e mentre l’artista non aveva alcuna reazione di fronte ai partecipanti, la loro reazione era invece il completamento dell’opera, permettendo ai visitatori di vivere un’esperienza intima con l’artista.

Immagini emozionanti, che mostrano come ogni essere umano reagisca in modi assolutamente diversi: chi rideva, chi stava serio, chi aveva una faccia dubbiosa e coloro che invece, molti, si lasciavano andare alle emozioni, piangendo silenziosamente davanti all’artista.

Concludono il percorso una selezione di video con le performance più famose della Abramović, come “Dozing Consciousness“, 1997, “Nude with Skeleton“, 2002, “Cleaning the Mirror I e II“, 1995, “The Kitchen. Homage To Saint Therese“, 2010 e tanti altri.
La scoperta di Marina Abramovic continua poi presso la galleria Lia Rumma, con la personale “With eyes closed I see Happyness“, fino al 5 maggio.

MARINA ABRAMOVIČ The Abramovič Method – fino al 10 giugno orari: lunedì 14.30 – 19.30, da martedì a domenica 9.30 – 19.30, giovedì 9.30 – 22.30; orari turni performance: lunedì 15.00/ 17.30, dal martedì alla domenica 10.00/ 12.30/ 15.00/ 17.30; giovedì 10.00/ 12.30/ 15.00/ 17.30/ 20.00;costi: biglietto unico performance + mostra dal 25 marzo: € 12 Biglietto mostra: € 8 intero, € 6 ridotto

 

 

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org


 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti