15 maggio 2012

PIANI BERUTO E MASERA: SOLO AMARCORD?


I piani per le città sono strumenti che servono – da almeno seimila anni – a trasformare un terreno libero in un terreno edificabile. Il governo cittadino incarica un suo funzionario di tracciare le strade lungo le quali poi i singoli abitanti potranno costruire le loro case, in genere rispettando le dimensioni dei lotti precostituite dalla loro scansione. Questi piani danno così una forma alla sfera comune della città, quella che gli abitanti vivono fuori dalla loro casa, a principiare dalla strada sulla quale sono affacciati e via via a quella più ampia che ne raccoglie molte e che spesso conduce a qualche spazio dedicato alle cerimonie collettive.

Come la casa dovrà assolvere con la sua disposizione ai desideri degli abitanti nell’ambito famigliare, legati dalla comunanza del sangue, così l’aspetto visibile della sfera comune dovrà dare un corpo riconoscibile alla loro consapevolezza di appartenere anche alla città, villaggio o capitale che sia. Sono quindi in gioco la forma materiale della casa e quella della città, forma che dovrà venire regolata con il suo strumento appropriato, il disegno, quello attraverso il quale tutti possiamo ricostruire, con un poco di immaginazione, come sarà l’ambiente nel quale saremo destinati a vivere.

L’ambiente appropriato è in ogni società diverso, frutto di una consuetudine consolidata da secoli nella quale riconosciamo senza esitare la nostra appartenenza e alla quale ancoriamo la nostra identità. Nella nostra società urbana, consolidata verso l’anno Mille nelle centomila città europee, noi siamo cittadini della nostra civitas non per l’appartenenza di sangue a una tribù o a una gens, o di fede alla umma, ma perché vi abbiamo il possesso di una casa: sicché la casa è anche la condizione della nostra libertà.

Così, per impedire ai nuovi arrivati di diventare cittadini gli faremo mancare il terreno edificabile. Quando i mercanti con le loro corporazioni assumeranno alla fine del Duecento il governo di Firenze, quasi per intero posseduta dalle famiglie aristocratiche, faranno disegnare ad Arnolfo di Cambio una città cinque volte più grande per accogliere le richieste di casa e di cittadinanza di quei nuovi ceti sociali così invisi a Dante, quella “gente nova e i subiti guadagni“: e se Dante rimarrà sempre nostalgico della sua piccola Fiorenza, dentro la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora e terza e nona / si stava in pace, sobria e pudica, la memoria della svolta politica del piano di allora rimarrà così vivace che duecentocinquant’anni dopo Cosimo I farà dipingere da Giorgio Vasari, in una delle scene che sul soffitto del salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio celebrano le fasi trionfali della storia fiorentina, Arnolfo di Cambio nell’atto di mostrare ai maggiorenti i disegni della città nuova: raffigurazione trionfale che difficilmente conseguiranno i misteriosi estensori del PGT.

Molti anni dopo, alla metà dell’Ottocento, andrà maturando nelle città europee un problema analogo: da un lato alla piena cittadinanza di tutti gli abitanti di una nazione, riconosciuta dalla rivoluzione del 1789, era stato fatto seguire da Napoleone III il diritto di voto a tutta la popolazione maschile senza alcun vincolo di censo, e poiché dall’altro lato la stessa rivoluzione aveva anche sancito il diritto di ogni proprietario di un terreno di potervi costruire una casa a suo piacimento, senza richiedere alcuna licenza – e l’euforia economica di quegli anni lo rendeva in concreto perseguibile – diventava indispensabile tracciare il progetto della rete stradale dell’intero territorio comunale, per assicurare a tutti la possibilità di costruirla allineandosi lungo una strada e rispettando le altezze stabilite dal regolamento edilizio.

Sarà la fervida stagione dei piani regolatori promossi da quasi tutte le città d’Europa, da Palermo che traccerà nel 1848 il viale della Libertà a Barcellona con il piano Cerdà, a Madrid con de Castro, a Berlino con Horbrecht, a Colonia con Stübben, a Strasburgo con Conrath, e finalmente a Milano con Cesare Beruto, che forse avrebbe meritato anch’egli un affresco ma viene ora evocato con questa mostra alla Triennale. (fino a domenica 20 maggio)

Ma i progetti delle città europee non hanno soltanto il compito di tracciare le strade lungo le quali i cittadini possono costruire liberamente la propria casa e diventare per questo a pieno titolo cittadini – quella cittadinanza che noi neghiamo agli immigrati recenti facendo loro mancare, come nella Firenze del Duecento, i terreni edificabili – devono anche assicurare a tutti il riconoscimento simbolico della loro cittadinanza.

La nascita delle città europee nel Mille è subito contrassegnata dal loro confronto simbolico, affidato alla grandezza e alla maestosità dei loro temi collettivi, come ricorda il monaco borgognone Raoul Glabro, che scriveva le sue memorie verso il 1030 “All’avvicinarsi del terzo anno che seguì l’anno Mille, si vedono ricostruire su quasi tutta la terra, ma sopratutto in Italia e in Gallia, gli edifici delle chiese. Sebbene la maggior parte, molto ben costruite, non ne avessero alcun bisogno, un vero spirito di emulazione spingeva ogni comunità cristiana ad averne una più sontuosa di quella dei vicini. Sembrava che il mondo stesso si scuotesse per spogliarsi delle sue vetustà e per rivestirsi da ogni parte di un bianco mantello di chiese. Allora, quasi tutte le chiese delle sedi episcopali, quelle dei monasteri consacrati ad ogni genere di santi, e anche le piccole cappelle dei villaggi, furono ricostruite più belle dai fedeli“.

A questo primo tema collettivo, la chiesa, ne seguiranno altri: le mura, il palazzo municipale, la locanda, l’arco trionfale, il teatro, il museo, la biblioteca, il giardino pubblico, il parco, il campo sportivo, il centro storico – e altri ancora che non è il caso qui di elencare – ciascuno dei quali costituisce l’espressione della riconoscibilità di una civitas nel suo confronto con le altre.

Ma che cosa succede? La società europea è fondata sulla mobilità sociale – e non sul diritto di nascita, che resta confinato all’ambito della sfera aristocratica – sicché tutti possono arricchirsi con il proprio lavoro e possono diventare persino sindaco – come un conciatore di pelli a Strasburgo – ma d’altra parte la civitas è anche una società democratica e dunque egualitaria sicché le diseguaglianze non debbono apparire in pubblico troppo vistose, ragion per cui le città emaneranno norme suntuarie che limitano parecchio l’esibizione pubblica della ricchezza nelle vesti e nei gioielli, e persino nelle gondole che a Venezia saranno rigorosamente nere, tutte eguali.

Solo che le case non sono tutte eguali, non soltanto perché i palazzi dei maggiorenti sono clamorosamente più cospicue delle case comuni – e questo potrà venire accettato perché costituiscono motivo di orgoglio della città intera – ma soprattutto perché i più ricchi abitano accanto ai temi collettivi che costituiscono il cuore della riconoscibilità cittadina mentre i meno abbienti stanno lontano, vicino alle porte: come constata Sebastiano Serlio nel Cinquecento, “le abitazioni dei più poveri uomini sono lontane dalla piazze e dalli luoghi nobili ma presso le porte“.

A questo inconveniente porrà un qualche rimedio la presenza delle piazze conventuali: poiché un breve papale imponeva una distanza di almeno cinquecento metri tra un convento e l’altro e tra i conventi e la chiesa principale, di fatto i quartieri nuovi erano tematizzati dalle piazze di un convento, con i suoi frati predicatori ma anche con il mercato, le beccherie e le botteghe che rendono allegra la vita – come sosteneva il frate catalano Francisco Eiximenis, che descrive nel1389 una città ideale e come la disegna Filarete a Milano immaginandola solcata da otto strade maggiori che racchiudono otto quartieri triangolari con al centro la loro piazza quadrata.

È questo il problema che hanno sul tappeto anche gli estensori dei piani regolatori dell’Ottocento, che li affolleranno di piazze a tematizzare così i nuovi quartieri, piazze legate da brevi strade diritte come Horbrecht a Berlino o costituenti il centro di piccole sequenze con una chiesa, una passeggiata, un giardino pubblico, un mercato, e legate da strade curve come nel progetto di Henrici per Monaco di Baviera.

Ma nel frattempo la gamma delle strade e delle piazze tematizzate era andata arricchendosi dei boulevard – strade più larghe, di solito fino a cinquanta metri – disposti l’uno di seguito all’altro con nello snodo uno square costituito da un vero e proprio giardino pubblico, come piazza Piola o piazza Frattini, e delle passeggiate, queste larghe fino a novanta metri, come viale Argonne e corso Sempione: queste cospicue strade tematizzate saranno caratteristiche dell’ultimo frutto del piano di Cesare Beruto, il piano Pavia-Masera, che copre l’intero territorio comunale nel 1912, forse non a caso adottato da un sindaco socialista il medesimo anno nel quale anche in Italia verrà esteso il voto a tutti i cittadini maschi.

Ecco che chi abita in fondo a viale Argonne, a più di due chilometri dalla cerchia dei boulevard più interni, non sarà proprio nel cuore della città ma il pieno diritto alla dignità della sua cittadinanza verrà riconosciuto da una passeggiata larga quanto gli Champs-Elysées a Parigi e conclusa da una vera chiesa.

Quanto ai quartieri costruiti dopo il 1956, quando questi piani così accuratamente disegnati verranno abbandonati per quelli moderni con la loro zonizzazione funzionale, sono ormai quasi il simbolo del degrado della nostra città, quartieri dove le persone abbienti raramente desiderano abitare, concentrate fin che possono nella città antica, dentro la cerchia dei navigli e in quella dei boulevard ricavati dalle mura spagnole, o nelle strade e nelle piazze tematizzate disegnate allora.

Ecco che con questa mostra abbiamo proposto ai cittadini milanesi che la vorranno visitare il modello concreto di come disegnare una città, non soltanto come è stata disegnata la città un secolo fa – la città che apprezzano così volentieri abitandola con affetto – ma anche suggerire che la Milano futura dovrebbe venire disegnata con continuità di metodo e di sapienza con quella del passato, e così conseguire quell’ambiente felice che tuttora amiamo.

 

Alberto Ferruzzi e Marco Romano

 



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