24 aprile 2012

VIAGGIO SUI MEZZI PUBBLICI NELL’ERA DI MR. IPOD


Una volta c’erano solo i giornali e a leggerli sui mezzi pubblici erano in pochi: qualcuno costretto a fare molte fermate, magari da capolinea a capolinea, che approfittava di quel tempo per leggiucchiare di cose, accadute da ormai troppo tempo per essere notizie, che avrebbe commentato a tavola con i suoi. “Sai che ho letto mentre tornavo a casa?” e via a seguire con storie colorate da due voci, quella del giornalista e quella sua, che nessuno dei commensali teneva a sentire. Oppure c’erano gli uomini e le donne in carriera, quelli che del giornale fresco di stampa, del tipico odore d’inchiostro e di quel tipico imbrattare le mani, non potevano fare a meno, la mattina, prima di andare a lavoro. Rigorosamente in piedi, che sedersi per rialzarsi solo poche fermate più in là, era uno spreco di tempo, leggevano i titoli e poi, con lavoro di gatekeeping, solo le notizie più importanti, di cui avrebbero discusso con i colleghi nella pausa caffè. Ma quella sui mezzi pubblici era una lettura distratta: dai rumori del traffico, da quello che ti chiedeva il permesso di sedere nel posto libero proprio accanto a te, da chi per la prima volta prendeva quella linea e voleva informazioni sulle fermate, dallo scrupolo di controllare, ogni tanto, quando toccava a te scendere, nonostante fossero anni che facevi sempre quella stessa strada.

È per questo che in pochissimi riuscivano a leggere libri: significava riuscire a estraniarsi da tutto. C’era poi il rituale della lettura del giornale del vicino. Ci voleva abilità per farlo: ci si doveva sincronizzare, calcolare lo scarto con cui l’altro avrebbe finito la sua di lettura e valutare la capacità di leggere, in quello stesso tempo, una notizia che sarebbe andata persa una volta girata la pagina. Non che l’altro non se ne accorgesse e non aspettasse a sua volta prima di sfogliare: era un gioco di complicità.

Oggi a leggere sui i mezzi sono in pochissimi. E menomale che esistono ancora i quotidiani distribuiti gratuitamente: te li trovi tra le mani alle fermate della metro e non riesci a non dare un’occhiata almeno ai titoli, a leggere l’oroscopo, a scegliere cosa vedere la sera in tv. Poi magari finiscono abbandonati nei vagoni, diventano improvvisate liste della spesa o fogli di un album su cui si libera la creatività dei bambini.

Alla lettura abbiamo sostituito una quantità di attività diverse.

In principio fu il walkman che, forse, non era così pratico da portare in giro ma ti dava la possibilità di sentire la tua musica, piuttosto che quella robaccia commerciale passata dalle radio. Antenato di una numerosissima progenie di lettori mp3, ipod e simili, era destinato a diventare un simbolo generazionale, un po’ come negli anni Settanta le autoradio avevano segnato la rottura tra il mondo dei grandi e quello dei giovani, tra la musica di Canzonissima e il rock.

C’è un che di democratico nelle abilità di prosumer che il consumo mediato dalla Rete è riuscito a creare: a ognuno la sua musica e a ogni musica il suo pubblico. Se il mercato della musica è storicamente winner-take-all, se pochi e sempre gli stessi sono gli autori che riescono a vendere e quindi a essere passati sulle radio, con la conseguente impressione di sentire sempre la stessa musica, Internet, la possibilità di scaricare qualsiasi brano più o meno legalmente, con tutta la voragine riguardo alle questione dei diritti che ciò apre, sono alla base di quella che già Anderson definisce long tail. Una coda lunga di titoli di nicchia, ascoltati da pochissime persone, magari dislocate in punti estremamente distanti tra loro, che il tradizionale sistema di distribuzione non avrebbe fatto circolare mai.

Un potente atto di significazione sembra stare dietro l’apparente frivolezza dell’indossare un paio di cuffie: lo spazio dell’esperienza fisica che si separa da quello dell’universo culturale e di investimento di senso. Il qui e ora dell’esperienza empirica, del tram che mi porta in Duomo, si annullano nell’essere proiettato, con e grazie alla musica che sto ascoltando, in un universo di senso completamente altro. Marginale l’intervento della tecnologia: siamo niente più che davanti al potere di qualsiasi prodotto culturale. Separazione. Ma anche isolamento da tutto il resto intorno a sé.

Una volta sui mezzi pubblici si chiacchierava col vicino, anche solo per lamentarsi del ritardo accumulato a causa di autobus che non passavano mai, per commentare l’ultima trovata della giunta piuttosto che l’immancabile rigore sbagliato la sera prima. Oggi ci innervosisce togliere le cuffie per ascoltare il turista che ci chiede informazione. La cuffia che cade dal nostro orecchio segna un ritorno, sia pure momentaneo, alla realtà che ci infastidisce, forse perché ci fa paura, perché non siamo più abituati a un mondo che ci chiede confidenza e partecipazione quando da sempre ci ha abituato alla sfiducia. Non una presa di distanza snob, quasi dandy, dal mondo ma un tentativo di difesa da parte di individui fragili davanti a una realtà che li sovrasta: questo starebbe dietro questa pratica, per certi versi odiosa.

Almeno un’altra pratica, escludendo le derive metastatiche dell’uso delle cuffie (consolle di gioco portatili, tablet et similia) resta a coprire i tempi morti dei viaggi sui mezzi: la telefonata. È niente meno che la logica, capitalista, del tempo-denaro da non sprecare, di cui approfittare per fare quanto più cose possibili. L’amica, il fidanzato, i genitori, il collega, l’amante (cui più tardi di ritorno a casa non si potranno dedicare che veloci sms, per altri ben ovvi motivi), diventano compagni di viaggio nostri e un po’ anche di chi ci sta intono, ché è un po’ come sotto l’ombrellone: non si riesce mai a fare a meno di ascoltare i discorsi degli altri, anche se monchi perché mediati. Vuol dire tutto questo viaggiare sui mezzi a Milano, cambieranno le forme d’espressione ma essi rimangono comunque un piccolo spartito, proteiforme e meraviglioso, di umanità.

 

Virginia Dara

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